Poesie per il Giorno della memoria
Poesie per il Giorno della memoria

Poesie per il Giorno della memoria, per non dimenticare

Il 27 gennaio si celebra il Giorno della memoria in commemorazione di tutte le vittime morte nei campi di concentramento nazisti. Le poesie per il Giorno della memoria possono essere un valido aiuto per non dimenticare.

8 intense poesie per il Giorno della memoria

La poesia si è interrogata su quanto accaduto durante la seconda guerra mondiale e su come l’umanità sia giunta a un tale stadio di degradazione.

Quando ti guardo, di Tito Brandsma

Nei campi di concentramento nazisti, oltre agli ebrei, vennero internati anche omosessuali, rom, sinti, Jenisch, testimoni di Geova come pure esponenti di diverse fedi religiose che si opposero all’ideologia nazista.

Tito Brandsmasacerdote carmelitano olandese nato nel 1881 e morì nel campo di concentramento di Dachau per via della sua fiera opposizione al nazismo. Quando era recluso a Scheveningen scrisse una preghiera che poi è diventata un simbolo della lotta non violenta:

Quando ti guardo, o Gesù
comprendo che tu mi ami,
come il più caro degli amici,
e sento di amarti come il mio bene supremo.

Il tuo amore, lo so,
richiede sofferenza e coraggio;
ma la sofferenza è l’unica
strada alla tua gloria.

Se nuovi dolori
si aggiungono nel mio cuore,
li considero come un dolce dono;
perché mi fanno più simile a te.

Lasciatemi solo, in questo freddo:
non ho più bisogno di nessuno,
la solitudine non mi incute paura,
perché tu sei vicino a me.

Fermati Gesù,
non mi lasciare!
La tua divina presenza
rende facile e bella ogni cosa.

Auschwitz, di Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo (1901-1968, Nobel per la letteratura nel 1959), nella raccolta Il falso e vero verde (1956) scrive una poesia dal titolo Auschwitz.

Laggiù, ad Auschwitz, lontano dalla Vistola,
amore, lungo la pianura nordica,
in un campo di morte: fredda, funebre,
la pioggia sulla ruggine dei pali
e i grovigli di ferro dei recinti:
e non albero o uccelli nell’aria grigia
o su dal nostro pensiero, ma inerzia
e dolore che la memoria lascia
al suo silenzio senza ironia o ira.

Tu non vuoi elegie, idilli: solo
ragioni della nostra sorte, qui,
tu, tenera ai contrasti della mente,
incerta a una presenza
chiara della vita. E la vita è qui,
in ogni no che pare una certezza:
qui udremo piangere l’angelo il mostro
le nostre ore future
battere l’al di là, che è qui, in eterno
e in movimento, non in un’immagine
di sogni, di possibile pietà.
E qui le metamorfosi, qui i miti.
Senza nome di simboli o d’un dio,
sono cronaca, luoghi della terra,
sono Auschwitz, amore. Come subito
si mutò in fumo d’ombra
il caro corpo d’Alfeo e d’Aretusa!

Da quell’inferno aperto da una scritta
bianca: “Il lavoro vi renderà liberi”
uscì continuo il fumo
di migliaia di donne spinte fuori
all’alba dai canili contro il muro
del tiro a segno o soffocate urlando
misericordia all’acqua con la bocca
di scheletro sotto le docce a gas.
Le troverai tu, soldato, nella tua
storia in forme di fiumi, d’animali,
o sei tu pure cenere d’Auschwitz,
medaglia di silenzio?
Restano lunghe trecce chiuse in urne
di vetro ancora strette da amuleti
e ombre infinite di piccole scarpe
e di sciarpe d’ebrei: sono reliquie
d’un tempo di saggezza, di sapienza
dell’uomo che si fa misura d’armi,
sono i miti, le nostre metamorfosi.

Sulle distese dove amore e pianto
marcirono e pietà, sotto la pioggia,
laggiù, batteva un no dentro di noi,
un no alla morte, morta ad Auschwitz,
per non ripetere, da quella buca
di cenere, la morte.

Chi sono io?, di Dietrich Bonhoeffer

Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), è stato un teologo luterano tedesco ed esponente di rilievo della Resistenza tedesca al nazismo che venne imprigionato (prima nel campo di concentramento di Buchenwald e in seguito nel lager di Flossenbürg), condannato e morte e infine impiccato su ordine diretto di Hitler.

In carcere Bonhoeffer scrisse una poesia che è diventata celebre e che ha per titolo Chi sono io? (traduzione di Alberto Gallas).

Chi sono? Spesso mi dice questo o quello
che dalla cella in cui son tenuto
esco disteso, lieto e risoluto
com’esce un signor dal suo castello.

Chi sono? Spesso mi dicono
che parlo a chi mi sorveglia
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.

Chi sono? Anche mi dicono
che sopporto i giorni infelici
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi e’ avvezzo alla vittoria.

Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto ciò che io stesso conosco di me?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d’uccelli,
assetato di parole buone, di umana compagnia,
tremante di collera davanti all’arbitrio e all’offesa più meschina,
agitato per l’attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?
Chi sono? Questo sono o sono quello?
Sono oggi uno, domani un altro?
Sono io l’un l’altro insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole, querulo vigliacco?
O ciò che ancora io sono somiglia all’esercito sconfitto
Che si ritrae in disordine davanti alla vittoria già conquistata?

Chi sono? Porre domande così da soli è a scherno mio.
Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo io sono, o Dio!

Un paio di scarpette rosse, di Joyce Lussu

Joyce Lussu (1912-1998), invece, si sofferma su un dettaglio agghiacciante: un paio di scarpette rosse.

C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
Schulze Monaco
c’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buchenwald
più in là c’è un mucchio di riccioli biondi
di ciocche nere e castane
a Buchenwald
servivano a far coperte per i soldati
non si sprecava nulla
e i bimbi li spogliavano e li radevano
prima di spingerli nelle camere a gas
c’è un paio di scarpette rosse
di scarpette rosse per la domenica
a Buchenwald
erano di un bimbo di tre anni
forse di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini
li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono
c’è un paio di scarpette rosse
a Buchenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole…

Alzarsi, di Primo Levi

Primo Levi (1919-1987), testimone diretto di quanto accaduto nei campi di concentramento, nella poesia Alzarsi scrive:

Sognavamo nelle notti feroci
sogni densi e violenti
sognati con anima e corpo:
tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
il comando dell’alba:
“Wstawàc”:
e si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
il comando straniero:
“Wstawàc”.

Alle vittime di Mauthausen, di Maria Luisa Spaziani

La poetessa Maria Luisa Spaziani (1922-2014) ne I fasti dell’ortica (1996) dedica un suo ricordo Alle vittime di Mauthausen:

Troverò in paradiso le parole non dette,
capitelli di colonne rimaste a metà.
Scaglie di stelle esplose, private di ogni luce,
antiche fontane secche che ritrovano il canto.

Troverò in paradiso quel macilento tralcio rosa
che a Mauthausen fiorì dietro la baracca quattordici.
Avrà i suoi occhi ogni cosa capace di durare,
miracolata, innocente, ostinata e radiosa.

Troverò in paradiso la tua e la mia pazienza.
Ne faremo un collage con rendez-vous mancanti ,
e velieri arenati, e brandelli di scienza,
bandiere intrise di pianto, ostinate a sventolare.

Ad Auschwitz, di Ko Un

Il poeta sudcoreano Ko Un (1933), scrive una poesia (tratta da Fiori d’un istante, del 2001, a cura di Vincenza D’Urso) che in pochi versi immortala gli orrori di Auschwitz:

Ad Auschwitz
pile di occhiali
montagne di scarpe
sulla via del ritorno
ognuno fissava fuori dal finestrino in direzione diversa.

Memorandum, di Hans Sahl

Hans Sahl (1902-1993), compone un Memorandum per contrastare Adorno che sosteneva che dopo Auschwitz non fosse più possibile la poesia (la traduzione è di Nadia Centorbi):

Un uomo, che alcuni ritenevano
saggio, dichiarò che dopo Auschwitz
non fosse più possibile alcuna poesia.
Sembra che delle poesie
l’uomo saggio non abbia avuto
alta considerazione –
quasi che queste servissero a consolare
l’anima di sensibili contabili
o fossero vetri intarsiati
attraverso i quali si guarda il mondo.
Noi crediamo che le poesie
siano ridiventate possibili
ora più che mai, per la semplice ragione che
solo in poesia si può esprimere
ciò che altrimenti
sarebbe superiore a ogni descrizione.

Foto | Di (c) C.Puisney ((c) C.Puisney) [GFDL o CC-BY-SA-3.0], attraverso Wikimedia Commons

Libraio

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Nata nell’estate 2005, la Graphe.it edizioni è il coronamento di un desiderio tanto profondo da poter essere catalogato come sogno e, come casa editrice, pur nella sua ridottissima dimensione, desidera coltivare i sogni nella vita di ogni giorno convinti che, come sosteneva Arthur Schopenhauer, la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro; leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare. La Graphe.it edizioni si propone di dare voce a scrittori, esordienti o meno, che abbiano qualcosa da dire in maniera nuova e che, forse, non trovano ascolto... Intenzione della Graphe.it edizioni è perseguire la massima circolazione delle idee. Vorremmo che le culture di tutti i paesi soffiassero per la nostra casa con la massima libertà.

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