vanità di vanità

Vanità di vanità: origine e significato di questa espressione della Bibbia

Vanità di vanità è il titolo di una celebre canzone di Angelo Branduardi, tratta dall’album State buoni se potete, colonna sonora del film omonimo del 1983 che presenta la figura di san Filippo Neri (e nel quale lo stesso Branduardi interpreta Spiridione, un personaggio inventato). La frase deriva dalla Bibbia e ha avuto una grande fortuna sia in letteratura che nel parlare comune.

Ma qual è il significato di questa espressione? E in quale libro della Bibbia se ne parla?

L’espressione Vanità di vanità

Spesso citata in latino vanitas vanitatum, l’espressione ormai divenuta un classico, grammaticalmente parlando è una forma di superlativo proprio della lingua ebraica.

In ebraico si dice hebel e sta a indicare il nulla, il vuoto, il soffio; il superlativo, pertanto, potrebbe essere tradotto con “assoluta vanità” o anche “perfetto nulla”. In italiano si è scelto di duplicare il termine – come calco del latino – per rendere il senso dell’espressione.

Come ben spiega il vocabolario Treccani, l’espressione viene spesso citata “per affermare la vanità dei beni terreni e l’insipienza di coloro che s’affannano a conseguirli”.

Il libro di Qohelet

L’espressione si trova nel libro di Qoèlet. Considerato uno dei libri più nichilisti di tutto l’Antico Testamento (ma è solo un punto di vista, altri lo valutano in maniera diversa) e anche uno dei più particolari è un testo che, nonostante la sua brevità, ha avuto un forte influsso sulla cultura di ogni tempo.

Questi sono i versetti principali in cui ricorre l’espressione in questione:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità: tutto è vanità.
Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. (1, 2. 14)

La ritroviamo di nuovo al capitolo 12, versetto 8, con parole simili.

Poche citazioni, come si vede, ma molto dense (tra l’altro, in tutto il libro di Qoèlet – o Ecclesiaste – il temine ricorre una trentina di volte).

Da notare che l’espressione si trova all’inizio e alla fine del libro di Qoèlet, quasi come un’inclusione: un modo per sottolineare l’importanza del concetto della più grande tronfiezza.

La fortuna dell’espressione

Quella usata da Qoèlet è un’immagine molto forte e non meraviglia che nel corso dei secoli sia stata utilizzata in diverso modo da vari autori.

L’imitazione di Cristo, uno dei testi che hanno plasmato la spiritualità cristiana dal Medioevo fino a metà del secolo scorso, aggiunge una frase al testo biblico per spiegare il senso dell’espressione. Per l’autore medievale tutto è vanagloria «fuorché amare Dio e servire Lui solo».

Petrarca, Ariosto, Leopardi e Brofferio

Un’affermazione così forte come quella dell’espressione di Qoèlet ha avuto diverse declinazioni nella storia della letteratura.

Qualcuno legge un riferimento al passo di Qoèlet nel verso 12 del sonetto Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono con cui Francesco Petrarca apre il suo Canzoniere: «et del mio vaneggiare vergogna è ‘l frutto».

Il tema è presente nel canto 34 dell’Orlando Furioso, quando Astolfo va sulla Luna per recuperare il senno di Orlando: tra le varie cose perse che ci sono sulla Luna figura anche i vani desideri degli uomini.

Giacomo Leopardi, nell’ultimo verso della poesia A se stesso, traduce in maniera splendida il superlativo biblico:

…Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera
E l’infinita vanità del tutto.

Angelo Brofferio ne I buratin interpreta l’espressione con versi dialettali:

Costa vita falabraca
Oh che farsa da Arlichin!
L’univers oh che baraca!
E nôi soma i buratin.

(Questa vita sciocca, o che farsa da Arlecchino! Il mondo è una baracca e noi siamo i burattini)

Foto | Philippe de Champaigne [Public domain], attraverso Wikimedia Commons

Roberto Russo

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