Arrigo Boito

Arrigo Boito, scapigliato librettista italiano

“Son luce e ombra: angelica farfalla o verme immondo. Sono un caduto chèrubo dannato a errar sul mondo, o un demone che sale, affaticato, l’ale, verso un lontano ciel…”.

Dualismo. Non è solo il titolo di questa poesia, sorta di manifesto della Scapigliatura italiana (movimento poetico di metà Ottocento che in realtà, proprio per sua natura, un manifesto non lo ebbe), ma anche una parola chiave della poetica di Arrigo Boito, poeta, librettista, compositore, insomma, un letterato come ora non ne nascono più.

Arrigo Boito, librettista di risulta

L’eterna lotta tra il bene e il male, ma anche le tematiche tipiche della poesia romantica riecheggiano in questi come in tutti i suoi versi, che fossero musicati o meno. E non deve stupire che interpretasse il mondo tutto in versi uno che, fin dalla più tenera età, studiò violino, pianoforte e composizione musicale al Conservatorio di Milano, sotto la sapiente guida del celebre Mazzucato.

Amico di Rossini e Verdi, un rapporto – anch’esso dualistico – con l’opera di Wagner, Boito si dedicò molto alla scrittura dei libretti di opere illustri e destinate a fare, poi, la storia della lirica, come La Gioconda di Ponchielli, oppure Un tramonto per Coronaro, spesso firmati con lo pseudonimo anagrammatico di Tobia Gorrio. La sua vocazione, però, era la composizione.

Mefistofele e Nerone, eroi antieroi

Ci provò una prima volta nel 1868 facendo rappresentare alla Scala di Milano il suo grandioso dramma Mefistofele, che condensava in sé l’intero Faust goethiano. Affatto gradito al pubblico, a causa degli scontri verificatisi in teatro durante le prime messe in scena, l’opera fu interrotta. Arrigo Boito ci rimise parecchio le mani riducendone drasticamente la partitura e ottenendo, così, una nuova versione tenorile che debuttò sette anni dopo a Bologna con un insperato, enorme successo.

Sulla scia di questo felice esito, Boito iniziò Ero e Leandro, progetto poi abbandonato per scarsa convinzione. Ma soprattutto si dedicò anima e corpo a un’altra impresa faraonica: il Nerone.

La tragedia – un trionfale affresco in cinque atti dal sapore spiccatamente decadentistico – costituì un incasso da record per il teatro La Scala milanese fin dalla prima rappresentazione, il 1 maggio 1924. Postuma però. Boito, infatti, morì nel 1918 lasciandone incompiuta la partitura che sarà completata da Toscanini e Tommasini. Dopo un periodo di frequenti esecuzioni, però, l’opera fu abbandonata per i proibitivi costi che comportava il suo allestimento.

Arrigo Boito, scapigliato d’adozione

La poesia era certamente un altro grande amore di Arrigo Boito. Aderì, più o meno consapevolmente, alla Scapigliatura, quella corrente che intorno all’equilibrio (spesso squilibrato) delle forze del positivo e del negativo aveva costruito la propria ragione di vita.

Gli scapigliati in parte rifiutavano il moderno in parte lo facevano proprio, inglobandolo e aderendo a un discreto verismo; rigettavano il romanticismo italiano considerato solo una facciata, salvo abbracciare quello europeo che poneva al centro l’alternativa tra artista e società. I nostri poeti, però, di questi temi interiorizzarono e incarnarono solo la parte più violenta dell’esempio francese del bohémien. Ecco perché si diedero alla ribellione rifiutando ogni forma di imposizione morale.

Il risultato furono protagonisti di odi e poesie sempre al limite. Come al limite erano le vite degli autori. Si lasciarono andare chi all’alcol, chi alle droghe, chi alle malattie, facendo nascere il mito del poeta maledetto che tanta presa ha, ahinoi, ancora oggi nelle generazioni più giovani e influenzabili. Arrigo Boito, in realtà, si tenne sempre a latere da tali impeti. Morì di una molto più banale angina pectoris.

Foto | Wikimedia Commons

Roberta Barbi

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