Addio è una formula di saluto della lingua italiana: è uno dei modi più antichi di salutarsi in Italia e nel corso del tempo ha cambiato il suo valore. Anzitutto: perché si dice addio?
Di fatto, un’abbreviazione: il saluto completo sarebbe “Ti/Vi raccomando a Dio” e nasce come semplice saluto e, soprattutto, come saluto amichevole. Questa sfumatura di saluto amichevole ha connotato il saluto per gran parte dell’Ottocento e ancora oggi lo si usa così in alcune zone della Toscana, da parte delle persone più anziane.
Nell’italiano contemporaneo tale formula indica, invece, una separazione avvertita come definitiva dolorosa o polemica (lo si direbbe, per esempio, dopo un litigio).
Addio: due esempi dalla letteratura
Testimonianze di questi due usi di tale formula di saluto, le troviamo in letteratura. Uno dei più celebri addii della letteratura italiana quello de I promessi sposi (VIII 93-98):
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio!
Come è evidente, qui la formula di saluto ha il valore tradizionale: l’emigrante che parte dal suo paesello non pensa certo allontanamento definitivo, ma si culla nella prospettiva «che, un giorno, tornerà dovizioso».
In Di là del mare, una delle Novelle rusticane di Giovanni Verga, del 1883, il saluto ha invece il valore di separazione definitiva, come oggi:
— Addio! — mormorò il giovane.
La donna non rispose e chinò il capo. Poi gli strinse forte la mano sotto la pelliccia e si scostò di un passo.
— Non addio. Arrivederci!
— Quando?
— Non lo so. Ma non addio —.
Un relitto dell’accezione più antica si ha nell’espressione ultimo addio per indicare l’estremo saluto al defunto.
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