Non lo abbiamo mai amato molto a scuola. Complicato, oscuro e, soprattutto, infelice non permetteva un rapporto fluido: a volte era difficile anche esporre i tratti salienti della sua filosofia. Giacomo Leopardi arrivava immancabilmente dopo Foscolo e Manzoni a comporre una triade assoluta in cui identificare i primi passi o le messi mature del Romanticismo italiano.
A dire la verità Leopardi era già noto dai tempi delle elementari quando legioni di maestre e maestri mettevano a dura prova le giovani menti distratte con Il sabato del villaggio o L’Infinito, incomprensibile, allora e forse anche ora, tuttavia breve e quindi opera meno dolorosa da mandare a memoria.
La modernità di Giacomo Leopardi
Aldilà delle ripartizioni forzate, Giacomo Leopardi si impone come una delle figure più moderne della letteratura classica italiana. Merito indiscutibile del pensatore di Recanati è quello di aver infranto l’illusione dell’unità dell’essere umano con la storia, la natura e la sua stessa essenza. Il progressivo innalzarsi della scala del pessimismo corrisponde a una equivalente discesa alle radici della condizione umana che, liberata dal velo delle illusioni, si palesa nella sua acuminata realtà:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale”.
(Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)
Leopardi può essere identificato come precursore di quell’aspetto dell’esistenzialismo che dall’incontro con la filosofia marxista produrrà con Albert Camus e Jean Paul Sartre le opere più insigni. In questa prospettiva l’Infinito leopardiano potrebbe assimilarsi alla visione dell’essere umano che di fronte alla frantumazione della propria natura riscopre l’ego che in una dimensione di pura orizzontalità rinuncia consapevolmente al divino per accogliere il peso dell’umanità che ha nella consapevolezza motivo di riscatto. In un certo senso è come se Leopardi preannunciasse il magnifico passaggio di Albert Camus ne Il mito di Sisifo:
Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo.
Il profondo senso della dignità
Nell’opera leopardiana, nel suo complesso, la consapevolezza, allora, si identifica a luogo del tragico che, però, lungi dal promuovere un lucido abbandono al fatalismo promuove un profondo senso della dignità. Rileggiamo, a questo punto, il già citato componimento:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Foto | Unknown sourceUnknown source, Public domain, via Wikimedia Commons
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