Come spesso capita, definire Carlo Cassola un grande scrittore è riduttivo. Giornalista, saggista, poeta e perfino sceneggiatore, fu uno dei protagonisti del panorama culturale dell’Italia del Novecento. Per evidenti motivi di spazio, lo ricordiamo qui solo come prosatore operando una dolorosa scelta all’interno della sua vastissima produzione.
L’uomo che si annoia, che fatica, che soffre, si consola andando col pensiero ad altri momenti della sua vita: tira fuori dal passato ricordi cari, anticipa le dolci aspettative dell’avvenire.
La produzione narrativa di Carlo Cassola
Possiamo dividere la sua narrativa in quattro periodi principali. I primi scritti rifiutano ogni istanza realista e mirano, invece, a cogliere delle cose la vera essenza, quella intuibile al di là dei sensi. Sono opere che risentono della sua fanciullezza triste e della sua gioventù descritta come un insieme di facili entusiasmi, che si bruciavano in un istante quando si cercava di sovrapporli con la realtà.
A questo periodo appartiene uno dei suoi lavori più validi, Il taglio del bosco. Racconto lungo che narra, appunto, i lavori per il taglio di un bosco di cui sono incaricati cinque boscaioli, ognuno con la propria personalità, ognuno con le proprie esperienze di vita, i propri dolori, le proprie storie offerte generosamente agli altri per trascorrere le lunghe ore d’isolamento. Inizialmente concepito come un puro romanzo esistenziale, in seguito percorrerà i sentieri della sofferenza per la morte della moglie che occorse davvero all’autore nel corso della stesura. Un lutto vissuto fin nelle viscere, per Cassola, che da quell’esperienza uscì mutato come persona e come scrittore, rifiutando tutto l’estetismo al quale era stato educato e lo stile sul quale si era formato, arrivando perfino a condannare la scuola – che mai l’aveva appassionato più di tanto – definita «scuola di criminalità».
Pensava che Rosa avrebbe dovuto aiutarlo. Non era possibile continuare così. Lassù nel cielo doveva dargli la forza di vivere. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c’era una stella.
Il Neorealismo
Nel suo secondo periodo letterario, Carlo Cassola abbraccia i temi politici e il Neorealismo, restando da esso sempre un pochino discosto, con il suo eterno rifiuto del linguaggio popolare e del dialetto nella scrittura colta della letteratura e la negazione della ricerca dei tipici spaccati sociali ai quali questa corrente preferibilmente guardava. Tale posizione, ovviamente, gli attirò qualche critica, come quelle illustri di Pasolini.
In Fausto ed Anna, edito nel 1952, ad esempio, entra dirompente la quotidianità della guerra sullo sfondo neppure troppo lontano delle vite dei due protagonisti. Due giovani che si attraggono, si abbandonano, si ritrovano e alla fine si separano definitivamente. Troppo diversi e reciprocamente immersi nell’esistenza che ognuno di loro voleva, pur consapevoli dell’impossibilità di condividerla con l’altro. È così che Anna si sposa con Miro e avrà un matrimonio tranquillo allietato dalla nascita di una bambina; mentre Fausto si appassiona all’attività bellica e finirà per aderire alla Resistenza.
Non parlarono più. Un soffio di vento fece rabbrividire Anna, che si affrettò a coprirsi meglio col golf. «Su, moglie, a letto», disse Miro alzandosi. Anche Anna si alzò. Miro spinse la porta ed entrò in cucina. Prima di seguirlo, Anna diede un’ultima occhiata fuori. Era tutto buio. Non c’era nessuno.
La ragazza di Bube
Del 1960 è il capolavoro di Carlo Cassola, La ragazza di Bube. Altra storia d’amore – quella tra Mara e Arturo, detto Bube – destinata a essere divisa dalla guerra. Ma che avrà un lieto fine. Perché nonostante l’incontro e le palpitazioni provate per Stefano, Mara resterà fedele al suo primo amore, aspettandolo per i lunghissimi 14 anni di detenzione ai quali era stato condannato. Ed è proprio sulla maturazione psicologica di Mara che gioca tutto il romanzo, dal primo capitolo che presenta una sedicenne tutta intenta alla costruzione della propria immagine sociale e alla ricerca del proprio posto nel mondo, fino all’ultimo, che si chiude con il ritratto di una donna consapevole delle proprie scelte di vita, pur sofferte e difficili.
In un certo senso, quindi, qui Cassola supera il Neorealismo suo contemporaneo, capovolgendone i termini: non è la vicenda privata ad essere funzionale alla storia e al contesto sociale, ma questi sono solo cornice delle esistenze individuali dei protagonisti, vero fulcro della narrazione. Questo, come pure la costruzione del personaggio di Bube, furono molto criticati dagli intellettuali marxisti, che nei tratti del compagno ravvisavano una neppure troppo velata critica al comunismo e accusarono l’autore di essere portatore di un’idea di fallimento della Resistenza, secondo loro antistorica.
È cattiva la gente che non ha provato dolore. Perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno.
Gli anni Sessanta
Gli anni Sessanta sono il contesto in cui Cassola matura un nuovo cambio di poetica, tornando in parte a quella degli inizi e ci troviamo, dunque, di fronte al suo terzo periodo letterario. Esempio di questo eterno ritorno su se stessi è la stesura di Ferrovia locale, romanzo che per ammissione dello stesso autore fu iniziato nel 1961, ma vide la luce solo nel 1966-67, a svolta artistica avvenuta. È la storia, anzi sono tante storie, innumerevoli quasi, alcune più corpose altre più minute, di persone qualunque, accomunate solo dal fatto di vivere lungo la linea ferroviaria San Vincenzo-Campiglia-Orbetello, che il ferroviere Dino percorre ogni giorno nelle sue 36 ore di lavoro a bordo di un treno merci, dai cui finestrini osserva gli alberi, le case e le persone, costruendo da quel punto di vista così particolare, un’idea tutta sua di periferia.
Anna tornò alla finestra. I lampioni erano accesi, ma facevano poca luce. Sul marciapiede davanti al portone si vedevano i segni tracciati col gesso per giocare a campana. Anna ci aveva giocato fino all’anno prima…
Gli ultimi anni di Carlo Cassola
Infine gli ultimi anni, quelli che intercorrono tra il 1980 e l’87, quando, già malato, la morte lo colse per arresto cardiocircolatorio. Alla fine della vita di Carlo Cassola appartengono gli scritti cosiddetti dell’antimilitarismo, di cui Le persone contano più dei luoghi, uscito nel 1984 dopo la rottura con Rizzoli, editore da cui non si sentiva più opportunamente valorizzato, è l’emblema. Già dal titolo si capisce quale fu il punto d’arrivo della lunghissima riflessione culturale che occupò la maggior parte degli ottant’anni di vita dell’autore, che si spense nella solitudine e nella malinconia della campagna in cui ultimamente si era rinchiuso, come in un esilio volontario dalle vetrine e dai salotti intellettuali.
Viveva in solitudine non perché l’avesse scelta, ma perché questa era la costrizione che gli era stata costruita attorno, e questa l’ha vissuta fino all’ultimo. Io non potrò dimenticare quei funerali di quella mattina dove se ne andava in solitudine, […] solitudine di una grande umanità; ha ricevuto il saluto della natura, tirava un vento gelido e gli alberi si inchinavano al passaggio della bara. È stato quello credo l’omaggio più bello, partigiano, che forse uno come lui potesse desiderare avere. (Mario Capanna)
Foto | WikiCommons
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