Viaggio e identità: un treno che sfreccia sui binari

Viaggio e identità: il racconto di Igal Amitai

Igal Amitai in questo articolo affronta il tema del viaggio e identità, intrecciando esperienze personali e riflessioni profonde. Dopo il suo recente soggiorno in Italia, Amitai racconta un viaggio che non è solo geografico, ma anche interiore, affrontando il conflitto tra la fuga da una realtà complessa e l’impossibilità di recidere completamente le proprie radici.

Amitai è un regista e attore nato in Ucraina, residente in Israele dai quando aveva 16 anni. Qui, insieme alla moglie Tamara e al figlio Dani, gestisce il Teatro Centro Città di Haifa. Con una sensibilità acuta e un approccio umano, Amitai riflette sulla complessità del distacco fisico ed emotivo dal proprio paese.

Lasciamo a lui la parola (e ringraziamo Dana Levi per la traduzione in italiano).

Appunti di viaggio

Che fortuna! Ho trovato due biglietti sull’ “El Al” per Milano e a un prezzo relativamente conveniente parlando in termini odierni: solo 340 dollari per un volo di sola andata. Al momento non serve fare il ritorno. Chissà che succederà. E l’Italia è pur sempre la nostra seconda casa. Il posto dove scappare dalla pentola a pressione israeliana c’è sempre stato e adesso il coperchio sta per saltare. Scoppia dall’interno. I boati delle bombe là fuori si sentono bene. I WhatsApp di nostra figlia che vive alle pendici delle Alpi esplodono: “Prima che non ci siano pi voli: venite!”. Il nostro nipotino israeliano che vive accanto a noi è già in un albergo a Tel Aviv. E dunque che ci resta da fare qui?

Partenza: la decisione di lasciare Haifa

Il volo è previsto per le 6. Ma noi usciamo la sera prima, prima che sia buio. Conviene trascorrere una nottata all’aereoporto. “Se rimaniamo ancora un’ora, non partiremo più”, me lo sento, dice lei. Sull’autobus per la stazione ci sono altre due persone oltre a noi. La città è deserta. Non che Haifa sia una città particolarmente frizzante in quelle ore e certo nell’ultimo periodo, in tutti i casi sembra il giorno di Kippur.

Nel vagone del treno, sul sedile accanto a noi, una donna ben curata nei suoi “anni d’oro”, bionda stile del Carmelo, con un piccolo trolley fra le gambe nude. Dice che non voleva lasciare casa, ma si è arresa alle suppliche dei figli che abitano a Herzelia. Di sicuro le ci vorranno alcuni giorni per soffocare nel collante familiare e tornerà nella sua casa con la finestra della camera degli ospiti che si affaccia sul mare o su qualche amabile boschetto, dopo che i nipoti l’avranno fatta impazzire.

All’aeroporto l’atmosfera è abbastanza allegra. Una famiglia numerosa con figli di ogni età e in aggiunta una nonna sprint parte per la Thailandia. Avevano programmato il viaggio da tempo e adesso è proprio il momento di staccare un po’. Forse quando torneranno, fra un paio di settimane, la situazione sarà un po’ migliorata. I rapiti saranno tornati… Le parole vengono dette senza troppa convinzione o speranza reale e si mescolano con quelle consuete dei controlli: “Avete fatto le valige da soli?…”. Guardo la bella ragazza addetta alla sicurezza davanti a noi, e provo a cacciar via le immagini delle vedette ostaggi o le sopravvissute alla “Nova” che mi passano davanti agli occhi.

Perché dovrei pensarci? Stiamo pur partendo per una vacanza, addirittura familiare, per un incontro con i nostri nipotini italiani. Forse seguiremo nostro genero, cantante d’opera, a un concerto nella pittoresca Cortina d’Ampezzo fra qualche giorno. E forse finalmente farò il workshop sul metodo Michael Chekhov, a cui da tempo volevo partecipare, che si svolge in Croazia. Perché no? Il treno Venezia-Trieste ci mette circa 3 ore (niente per chi vive qui in Europa) e da lì altre due ore di autobus fino alla cittadina di vacanze dove si tiene il corso. Il mondo è aperto. Così diverso dal nostro piccolo paese-isola preso in pugno da questa accozzaglia di pirati.

Accanto a noi una donna con la figlia di 10 anni, araba di Nazaret, ma parla ebraico senza accento. Ha paura delle sirene. Ha comprato un biglietto per Parigi, visto che là il tempo non era un granché, l’ha sostituito con uno per Marsiglia. Il suo passaporto è austriaco e lei ha parenti in Francia, se la caverà. Forse tornerà o forse no. Sì, ha altri figli più grandi e già indipendenti che vivono al centro del paese. È insegnante, ma non le importa perdere il lavoro. Che la licenzino pure. In tutti i casi ne ha abbastanza e vuol cambiare vita.

L’autobus dall’aeroporto di Malpensa a Milano procede lentamente. Traffico mattutino. Anche qui. Molti anni fa abbiamo vissuto in questa città per un anno intero. Avevo pensato, dopo la prima guerra del Libano, di non poterci più vivere in un paese in cui la guerra non finisce mai. Ma ci siamo tornati dopo la frase del venditore di vestiti usati. Ci aveva venduto una pelliccia che si era sfaldata in pochi giorni e quando ce n’eravamo lamentati se n’era uscito con un “adesso capisco la storia”, qualcosa collegato con la crocefissione di Cristo, e quanto gli ebrei siano bravi a contrattare… gli ascoltatori di una trasmissione radio legata al partito comunista lo definirono “una persona sporca”, ma l’amaro in bocca era rimasto… e alla fine siamo tornati.

Un ritorno in Italia, una seconda casa

La magnifica stazione centrale di Milano è piena come al solito. Qui sono avari di panchine e con fatica troviamo un posto per sederci. La macchina che cambia i soldi per ricevere un euro per entrare in bagno funziona. Fortuna. Numerose volte siamo arrivati a questa stazione e sempre il viaggio in Italia suscita forti emozioni. Stavolta sembra tutto come in un sogno, come se stesse succedendo e non succedendo, a noi. E non a noi.

Un tempo, anni fa, non c’erano macchinette automatiche per la vendita di biglietti, ma sportelli con impiegati in carne e ossa con cui era possibile scambiare qualche parola amichevole, fare domande, persino un po’ scherzare. E tutti i treni delle Ferrovie dello Stato avevano lo stesso prezzo.

La mamma di Marcello Mastroianni gli disse, quando era già famoso, che ancora sognava di vederlo ferroviere. E lui: “Mamma, sono ormai famoso e guadagno un sacco di soldi”. “I soldi vanno e vengono” ha ribattuto lei “mentre i treni in Italia continueranno sempre ad andare”. Ma adesso bisogna stare attenti con quelle macchinette diaboliche. La differenza di prezzo tra i treni veloci: Italo, Freccia e quelli regionali è enorme. E noi non abbiamo nessuna fretta. In tutti i casi, dopo una notte in bianco, stasera dormiremo bene e non importa quando arriveremo sulle Alpi. Siamo talmente stanchi che forse riusciremo a dormire un’intera nottata senza stare appiccicati alle radio israeliane e sentire gli allarmi della protezione civile provenienti dai nostri cellulari che si infiltrano nei sogni. O meglio chiamarli incubi.

Sul vagone quattro donne di mezza età, con scarpe da trekking legate di lato agli zaini, fanno colazione sui sedili di fronte a noi. Evidentemente hanno terminato una tappa. Da lontano mi sembrava parlassero tedesco, ma sono olandesi. Un po’ assomiglia. No, non odiano Israele. “So che ci sono persone in Israele che si oppongono a Netanyahu. E anche da noi la destra si rafforza”-dice una. “Sosterremo tutti Kamala Harris” dice la sua amica. Bene, la prima rivelazione che siamo israeliani, venuta fuori chiacchierando sul treno, cosa che piace particolarmente a colei che mi sta a fianco, è andata bene.

Incontri lungo il cammino

In coda infinita per il vaporetto verso la Biennale di Venezia una ragazza di carnagione scura che ci sta accanto, ci offre un posto sull’unica panchina che si trova sulla piattaforma dondolante sull’acqua. Scopriamo che è iraniana, ma vive in Germania. Assistente sociale. Prima che la barca arrivi, riusciamo a scambiarci un po’ di lamentele verso i politici, ognuno i suoi, e si crea un tipo di vicinanza medio-orientale, a differenza dall’Europa bianca, che ha dovuto superare due orribili guerre mondiali, per ricevere un po’ di senno e concretizzare un periodo, pur sempre breve nei termini storici, di pace.

La ragazza dice di essere curiosa di vedere il padiglione israeliano e noi promettiamo che vedremo quello iraniano.

Venezia: arte e riflessione

Mentre ci avviciniamo al padiglione israeliano vediamo un capannone con la scritta esercito. Sotto un soldato e una soldatessa con i fucili. Non fanno paura. I soldati e i poliziotti in Italia di solito non fanno paura. Per lo meno non a noi. Generalmente ci si può scambiare quattro parole, come con qualsiasi passante. Il padiglione israeliano è chiuso. Sulla vetrina è appeso un cartello in inglese: “Gli artisti e i curatori israeliani saranno lieti di tornare a esporre le loro opere dopo che verrà raggiunto il cessate il fuoco e gli ostaggi saranno tornati”. Nella sala oltre la vetrina è esposto un video con personaggi fatti di qualcosa simile a terracotta posti in uno spazio urbano che si muovono urlando… i visitatori fotografano il cartello e l’allestimento e il riflesso di sé stessi sul vetro entra nell’inquadratura.

Ci sono ancora molti padiglioni da vedere, compreso quello iraniano, ma noi abbiamo già esaurito le forze.

A. è un attore con ideologie di sinistra. Gli diciamo scherzando che ci siamo appena incontrati con una “simpatica nemica”. “Non sono il nemico di nessuno” afferma. “Purtroppo non siamo sempre noi a decidere chi sono i nostri nemici” gli dico. “Non è cosi’ semplice”. “È semplice” – insiste – “Se decido di non essere parte della guerra, non lo sono”. Cosa dirgli? Forse che è fortunato a non esser nato in Italia 80 anni fa, ai tempi in cui bombardavano Milano. O di non essere israeliano o iraniano nei giorni nostri. “Il popolo ebraico sarebbe dovuto essere il primo, dopo tutto ciò che ha subito, a non cadere nella trappola della vendetta, anche contro quelli responsabili del 7 ottobre”, continua.

Che dirgli? Che la questione è come sia possibile che persone gentili e intelligenti, ciascuno di per sè, seguano ciecamente un leader carismatico. Questa è una domanda senza valide risposte. Consigliargli forse di vedere l’ottimo film di Ettore Scola Una giornata particolare o la scena da Amarcord di Fellini, in cui i fascisti locali maltrattano il padre dell’eroe, costringendolo a bere olio di ricino. E la moglie piangendo lo pulisce in una tinozza di compassione. Ma non credo che serva a niente. E non è né il posto né il momento. Sì l’insegnante deve tornare dai suoi studenti.

Una lezione di teatro tra i bambini

Alcuni giorni dopo sono io a fare a bimbi dai 4 ai 12 anni una lezione di teatro con giochi di ruolo in una scuola parentale in una yurta nel bosco. I bambini mi correggono quando sbaglio una parola in italiano e ci capiamo perfettamente. Qui non ci sono frontiere né posti di blocco: né ideologici, né culturali e quasi nemmeno linguistici. Per un’ora riesco a far tacere i pensieri. E a non pensare a ciò che abbiamo lasciato dietro di noi, cacciare le sensazioni di colpa da disertore che ha abbandonato amici e parenti.

Il laboratorio teatrale secondo il metodo Michael Checkov quest’anno si svolge ad Amburgo. Rimangono ancora due posti liberi e noi decidiamo di partecipare e partire. Ci si potrebbe arrivare con un volo economico da Venezia. Ma sarebbe come partire per l’estero da Israele. E noi vogliamo percepire i confini aperti, la libertà di movimento.

Attraversare l’Europa in treno

I treni tedeschi sono precisi e ordinati. Con due bagni alle estremità del vagone e un fiore di plastica ai finestrini. Lei, che mi sta a fianco, riesce anche qui ad attaccare bottone con i vicini. Con un po’ di difficoltà, ma ci riesce. Alla fine tutti vogliono comunicare su un treno, è solo una questione culturale quanto ci metteranno a sciogliersi. Nel mio telefono compare la notizia che l’Iran sta attaccando. Il mio vicino, impiegato alla banca sociale, allarmato dalla notizia: “Cosa? L’Iran ha attaccato?”. All’improvviso si nota come la paura di ciò che accade da noi può arrivare anche qua. Mi mostra le foto con i missili sul suo portatile e noi le osserviamo. Provo a chiamare in Israele da WhatsApp, ma non prende. Non c’è rete.

Un workshop come fuga e ispirazione

Circa 40 persone, la maggior parte giovani, partecipano al workshop su Michael Checkov. Io e il professore d’opera americano siamo gli anziani del gruppo. Giro di presentazioni. Venuti da ogni parte del mondo: Europa dell’Est e dell’Ovest, Cina, Giappone, Sud America. Tra loro circa 6 giovani donne turche. Ci hanno messo un anno per ricevere il visto per uscire dalla Turchia. “Questo workshop è per voi una sorta di fuga dalla morsa del regime?” chiedo a due di loro che siedono accanto a me nella pausa pranzo. Annuniscono col capo confermando la diagnosi. Le posso capire e perfino mi ci posso identificare.

Ritornando voglio fermarmi a Innsbruck. Ricordo quando ero bambino le olimpiadi invernali trasmesse da lì. Panorami innevati e città pittoresche. Forse troveremo un po’ di tranquillità. Non prenoto un albergo. Dormiremo vicino alla stazione. La stazione è rumorosa. Macchine sfrecciano al galoppo. Un’insegna di un club di spogliarelliste lampeggia di fronte a noi. L’atmosfera e la compagine di persone che corre per prendere il treno, ci dice che non conviene parlare ad alta voce in ebraico. È già tardi, ma decidiamo di continuare per Salisburgo.

Sul treno accanto a noi siede un uomo di bassa statura con un oud. Un oud? Forse è meglio anche qui non parlare in ebraico. Alla stazione di Salisburgo bisogna aspettare per due ore il treno di mezzanotte per Venezia. Non importa. Siamo ormai viaggiatori esperti, la stanchezza è passata. E di sicuro là c’è una bella sala d’attesa non peggiore di quelle italiane. Dopotutto siamo in Austria!

La stazione è simile a un lungo tubo. Freddo. Sul vetro della porta della sala d’aspetto c’è scritto che è in ristrutturazione. La gente si accalca lì dietro, vicino ai bagni e alla sala macchine, perché fa più caldo. Il ragazzo con l’oud apre un cartone trovato da qualche parte e si addormenta abbracciato al suo strumento. Altri si siedono per terra, sui pacchi di materiali da costruzione sparsi qua e là. Non c’è personale di sicurezza, non ci sono dipendenti. Gli sportelli sono chiusi. Qualche decina di persone sparse vagano da una parte all’altra. A un certo punto compare un signore delle pulizie con un carrello. L’unico che rappresenta ufficialmente il posto. Ci dice che dall’altra parte della stazione c’è un’altra sala d’attesa ed è aperta. Ci trasciniamo colà. Sala d’attesa piccola e sporca.

Troviamo un posto dove sederci accanto a un giovane che dorme russando. Di sicuro a breve smetterà di russare e si sveglierà. Macché! Continua a dormire e il russare diventa sempre più forte, echeggiando nella sala. Ci spostiamo. Nessuno parla. Tutti incollati ai cellulari.

Una donna è in piedi. Le indichiamo il posto vuoto accanto a noi. “Non mi siedo mai, perché sono una regina!”, dice. “Ero sposata con un re rumeno”. Davanti a noi c’è una donna, con vari sacchetti e borse, ha una gamba amputata. Sistema il moncone sul pavimento, accanto alla scarpa con la protesi. Si appoggia alle stampelle e cerca di alzarsi, ma il contenuto delle borse si sparge sul pavimento. Nessuno si alza. Continuano a fissare gli schermi, fingendo di non vederla. Mi avvicino e l’aiuto a raccogliere le cose. Dice: “Grazie” e mi guarda come chi è venuto dalla luna. Non sono abituati a gesti del genere da queste parti?

Finalmente mezzanotte. Trovato il nostro vagone. Il capotreno è italiano. Un senso di sollievo. Dice che se qualcuno ci ha preso i posti, dovremmo chiedergli gentilmente di spostarsi. Se ne va. Non più pervenuto per l’intero viaggio.

Nella nostra cabina, sui sedili trasformati in letti, tre giovani. Uno sta dormendo, con i piedi nudi appoggiati sulle ginocchia di un amico, di fronte alla porta. L’amico si sistema qualcosa sotto la testa come fosse un cuscino. Fa di tutto per farci un po’ di spazio.

Entrambi provengono dall’Afghanistan. Hanno viaggiato in autostop, a piedi e in treno, fino all’Europa. Hanno lavorato un po’ a Vienna. Tenteranno la fortuna in Italia. Accanto alla finestra c’è un ragazzo più grande, viene dal Pakistan. Lavorava a Vienna anche lui e non gli piaceva la gente. Anche lui cercherà fortuna in Italia. Ha incontrato i due afghani lungo la strada. Ci fa vedere, sul suo iPhone, le foto della moglie e delle due piccole figlie. L’afghano mi mostra con orgoglio un permesso dei vigili di Belluno che gli consente di soggiornare temporaneamente in città.

Cosa sono per lui? Un rappresentante del mondo occidentale che potrebbe aiutarlo? Gli auguro buona fortuna. I piedi nudi del suo amico davanti al mio naso. L’amico se ne accorge e cerca di coprirli con un cappotto. Scruto continuamente il vagone alla ricerca di un altro posto libero, dato che la gente scende nelle numerose stazioni intermedie. Alla fine ne trovo due. Accanto a Beatrice, pensionata di un paesino di Bavaria, che va a Venezia per vedere la Biennale, e ritorna la notte successiva, sullo stesso treno. Senza spendere soldi per un albergo. Ama l’arte. È lei stessa una pittrice, una donna in gamba.

Il treno arriva a Mestre. Passiamo davanti alla cabina con i ragazzi e il giovane afghano ci ringrazia. Probabilmente perché gli abbiamo permesso di riposarsi un po’. Gli auguriamo di riuscirci. Scendiamo a Mestre. È una città non bella, da cui si passa andando a Venezia. Ma ora ci sembra il paradiso. Che meraviglia sentire di nuovo parlare in italiano. Ho un problema con la biglietteria automatica e vengono subito ad aiutarmi.

Il vecchio artista di strada vicino alla stazione ferroviaria di Venezia ci disse qualche anno fa, quando ci fermammo accanto a lui: “Continuate con i vostri insediamenti? Allora non ci sarà mai pace”. Adesso gli passiamo accanto, ci riconosce e abbassa la testa, con ostilità. O almeno così mi sembra.

Seduta accanto a noi, su una panchina di pietra lungo il canale a Cannareggio, c’è una donna bassina con il velo mussulmano. È indonesiana e quando capisce di dove siamo, tira fuori il cellulare e ce lo schiaffa in faccia con un movimento deciso: sulla bandiera lampeggia la scritta “Palestina libera”. Vorremmo risponderle, dirle che anche noi siamo favorevoli a uno Stato palestinese indipendente accanto a Israele, ma lei stizzita, si è già alzata e se ne è andata.

“Che bella coppia”, ci dice un anziano veneziano, uno di quelli a cui piace davvero il fatto che Venezia sia stata rubata alla gente del posto dai turisti. Ci svela che ha vissuto per qualche tempo a Gerusalemme, dove ha studiato l’arabo e le lingue semitiche. Chiede qual è la percentuale di parole d’origine semitica nell’ebraico moderno, in contrapposizione allo yiddish, in cui vi è solo il 2%. Questa conversazione di linguistica viene interrotta quando arriva un altro signore, che divide il suo tempo tra Venezia e il paese di Tambre, sulle Alpi, dove vive una nostra parente italiana. Promette di salutarcela. Com’è piccolo il mondo!

A Bologna, nell’appartamento di amici, rimaniamo bloccati a causa delle alluvioni sopraggiunte in tutta la zona, che stanno causando danni a case e negozi al piano terreno. Nel nostro quartiere tutto è piuttosto asciutto, solo la pioggia cade ininterrottamente. Di notte la distanza da Israele si riduce completamente. Rete Bet (radio israeliana) tutta la notte, in aggiornamento. “Sei sceso al rifugio? Hai svegliato il bambino? Come ha reagito?”. Siamo nel popolare quartiere della Barca, edifici piuttosto vecchi costruiti negli anni Cinquanta, molti immigrati, anche una piccola moschea realizzata con l’aiuto del comune. Il divario tra il quartiere e il bellissimo centro città è enorme.

L’uomo della sicurezza del supermercato del quartiere si chiama Marcello e desidera che ci trasferiamo definitivamente in Italia. “Siamo nel posto più bello del mondo, vivrete qui in pace. Accanto a vostra figlia. Vostro figlio vi raggiungerà in seguito” – dice.

Ma io trovo un biglietto di andata e ritorno con “El Al”, di nuovo, per 340 dollari compro un flessibile con possibilità di disdetta 24 ore prima, compresa una valigia che ci serve per mettere i vestiti e le scarpe invernali che dovevamo comprare qui.

Salutiamo Natalia dal negozio di frutta e verdura al “treno” (un palazzo lunghissimo che, il simbolo del quartiere). Lei è di ucraina, dove sono nato anche io, ma suo fratello abita in Israele. Capisce bene perché torniamo. Ha un figlio rimasto vivere a Donetsk, e quando è andato a trovarlo, l’anno scorso, dormiva alla grossa, anche sentendo le esplosioni dei missili russi. “Da qua i pensieri mi fanno impazzire quando ascolto le notizie” – dice. Prendo la forza di giustificare la nostra scelta di tornare da quello che dice Natalia e ci auguriamo a tutti noi di rivederci quando arriverà la pace.

Ritorniamo sulle Dolomiti per un’altra settimana con figlia e nipoti. Ai bambini della yurta faccio un’altra lezione di giochi teatrali. Concludo con l’esercizio “tutti sono bloccati in un ascensore e devono provare a uscirne”. Urlano, premono interruttori, portano immaginari martelli pneumatici. All’improvviso mi ritrovo a fare il tecnico che li chiama da fuori e li libera. Mi circondano e ci abbracciamo, formando un rumoroso mucchio, uno sopra l’altro. Terminiamo con un sospiro di sollievo: siamo liberi! Come facile di uscire da una trappola alla libertà… facendo teatro.

In un taxi che ci porta a casa dalla stazione ferroviaria, l’autista racconta che un’ora fa c’è stato l’allarme. Nella sua città, Shafarham, non ci sono quasi rifugi, ma lui non se ne fa un problema. Ciò che è scritto in cielo è ciò che sarà.

Il ritorno a casa: tra guerra e teatro

A casa misuro il tempo necessario per scendere 20 gradini fino al rifugio, e scopro che ce la facciamo in un minuto e mezzo, anche al nostro passo d’anziani. L’e-mail sul mio computer dice che il direttore del festival teatrale di una delle città in Italia, non può accettare l’offerta del mio spettacolo (che parla dell’assurdità di qualsiasi guerra), perché il mio governo sta intraprendendo un’azione aggressiva e genocida contro il popolo palestinese. Spera che potremo incontrarci dopo che ci sarà pace. Inshallah. Lo ringrazio per la risposta. Il fatto stesso che risponda è qualcosa di straordinario.

Ci abituiamo a fare la doccia velocemente, in modo che l’allarme non ci colga mentre ci stiamo lavando. Ma di cosa ti lamenti, mi dico, rispetto a tanti altri veramente sfortunati, che sono stati colpiti dal destino crudele, sei fortunato.

Pochi giorni dopo arriva il cessate il fuoco. Usciamo dopo circa due mesi di permanenza all’estero più la quarantena volontaria in patria. Apriamo il nostro piccolo teatro che abbiamo costruito cinque anni fa unendo due negozi. Che cosa porteremo in scena e per chi? Che valore ha il teatro oggi? Per lo meno qui facilmente posso scambiare un “Come va? Il Paese sta andando in tilt, eh?” E l’altro annuirà o almeno capirà di cosa parlo.

Foto | Madrabothair via Depositphotos

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