Il nome che diamo ai colori

Il nome che diamo ai colori: la storia vera di un incontro che ha cambiato molte vite

Provincia di Modena. Fine anni Sessanta.

Il nome che diamo ai colori

Dalla finestra della camerata, un ragazzo ospite del Giardino, struttura di contenimento per “subnormali” e “irrecuperabili” a mezza strada tra manicomio e scuola speciale, vede entrare in cortile un tipo strano, diverso dai soliti sorveglianti, dato che indossa giacca di lana scura, sciarpa, cappello e scarpe alte sopra le caviglie, alla moda di quegli anni fuori da quel posto (“vestire come pastori di un presepe”).

Lì dentro con lui da anni ci sono incontinenti, oligofrenici, maniaci, laceratori, distribuiti in varie palazzine (i piccoli, i ragazzi, le femmine, oltre al refettorio con la stanza per il frate, agli uffici del direttore, del personale e della segreteria e al capanno degli attrezzi), chiusi da recinzioni e cancelli, circondati da un fossato d’acqua marcia.

Il tipo accetta di fare il “maestro”. C’è una classe scoperta nella palazzina dei piccoli.

Il maestro e i suoi oggetti

Giorno dopo giorno quel signore strano comincia ad arrivare con una Cinquecento verde, posteggiandola fuori dal cancello principale, come un estraneo qualsiasi, un visitatore. Porta con sé buste di carta, lana, stoffa, tappi, tavolette di legno, vecchi giornali, altri oggetti da spazzatura per attizzare (forse) la fantasia dei bambini.

Recupera un pulmino sbattuto e abbandonato e ne porta otto a vedere per la prima volta il fiume e gli Appennini.

Si barcamena fra la vita turbolenta dell’istituto, le violente manganellate e la terribile cella di punizione per chi si comporta fuori dalle regole.

Riesce a coinvolgere sei ragazzi nella classe dei piccoli, li accompagna al bar, parla di loro a famiglie di conoscenti e prova a metterli in contatto con un giornalista.

Scopriamo che il ragazzo si chiama Ettore, ha una storia, aveva una famiglia. Con il suo amico Sante riescono a testimoniare qualcosa su quanto accade dentro. Il maestro viene allontanato, ma loro forse si saranno conquistati un futuro diverso, come racconta ora Ettore, cinquant’anni dopo.

Ottimo secondo romanzo di Ivan Sciapeconi

Il creativo insegnante di scuola primaria (a Modena) Ivan Sciapeconi (Macerata, 1969) ha al suo attivo già vari testi didattici e di narrativa per ragazzi e a inizio 2022 un riuscito esordio nel romanzo con la storia vera di aiuto agli ebrei ambientata fra il 1938 e il 1943 a Villa Emma di Nonantola.

Attraverso tono giusto e garbato, scelse il punto di vista di un bambino ai bordi della pubertà, con mescolanza sapiente di tempi e contesti, di ricordi e illusioni, di pensieri e dialoghi.

Il secondo romanzo è una preziosa straordinaria conferma letteraria. Commuovetevi, or dunque, ne vale la pena!

Stile e struttura de Il nome che diamo ai colori

Anche qui la narrazione è in prima persona, questa volta al passato perché Ettore, l’io narrante, è vivo e ha avuto una colorata vita professionale e affettiva, dopo le sofferenze e gli incubi della vera Villa Giardini di Casinalbo.

Tutto doloroso e dolorante, seppur narrato in modo mirabile e lirico, intelligente e toccante, specie se si hanno avuto o si hanno contiguità con sapiens sofferenti di ritardo cognitivo o di malattia psichica, nell’antica ignavia o nella costante parzialità di servizi pubblici e privati.

Nessuno può stare dentro una sola definizione, abbiamo imparato. L’alternanza tra fasi di umore estremamente elevato, euforico o irritabile (mania) e fasi di umore depresso non ha titolarità esclusive.

La canzone chiave è quella del ritorno al Giardino, decenni dopo: un famoso autore canta e rassicura un figlio, non avere paura (gli dice) perché il mostro se ne è già andato.

Il perché del titolo

Il titolo richiama il costante filo narrativo del libro, i colori di ogni cosa, materiale e pensata, oggettivi e soggettivi, reali e metaforici:

il nome che diamo ai colori, mi dico, è solo la paura che proviamo di fronte all’immensa profondità del mondo.

La struttura è conforme. L’autore scandisce sedici capitoli riferiti tutti al periodo del “maestro” (a cui Ettore si rivolge sempre con il “tu”, presente che sia o assente ed evocato di continuo), eccetto l’ultimo ambientato oggi sull’Adriatico (“io mescolo colori, non ho mai smesso”), intervallandoli spesso con capitoli brevissimi di poche frasi in corsivo dedicati ai colori (lì l’interlocutrice è la madre di Ettore, che gli regalò “parole per il futuro” ovvero una scatola di colori, prima che la prematura morte fosse di fatto all’origine del precoce ricovero del figlio): bianco, blu, arancio, verde, rosso, giallo, azzurro, rosa, nero, ancora bianco, infine.

Il libro

Ivan Sciapeconi
Il nome che diamo ai colori
Piemme, 2023

Valerio Calzolaio

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