Libri scritti da donne musulmane
Libri scritti da donne musulmane

5 libri scritti da donne musulmane

Avete mai pensato di stilare un elenco di scrittrici cristiane? Probabilmente no. No perché non sapremmo da dove cominciare: scrittrici contemporanee? E di quale nazionalità? Il cristianesimo è presente in cinque continenti e con caratteristiche profondamente differenti. Sceglieremmo scrittrici anglicane? Luterane? Cattoliche? E perché mai c’è tutto questo interesse per i libri scritti da donne musulmane?

Cosa intendiamo con libri scritti da donne musulmane

Arriverò subito al punto: dire scrittrice musulmana non vuol dire molto più che dire scrittrice cristiana. A meno che non si tratti di autrici che pongono la propria esperienza religiosa al centro dei propri scritti, naturalmente.

Una cosa, però, è indubbia: che tu scriva o no di religione, sarai sempre influenzata dalla cultura che ti ha accompagnato dall’infanzia. E, spesso, la cultura è la società sono indissolubilmente legate e dipendenti dalla religione, che ci piaccia o no, che sul nostro passaporto ci sia scritto Italia o Iran.

5 libri scritti da donne musulmane

Proveremo a viaggiare in due continenti e quattro nazioni. Tutte a maggioranza musulmana, ciascuna con una propria storia, ciascuna con un Islam vissuto in maniera differente. E, ciascuna di queste cinque autrici, ci porterà il suo Islam “personale”. Perché l’Islam non è un monolito, esattamente come il cristianesimo.

Scopriamo insieme, allora, alcuni bei libri scritti da donne musulmane.

Leggere Lolita a Teheran

Azar Nafisi, iraniana, ha insegnato letteratura in un’università di Teheran prima di trasferirsi negli Stati Uniti.

Un paio d’anni prima di abbandonare l’Iran, dopo aver dato le dimissioni, chiese a sette delle sue migliori studentesse di organizzare una serie di incontri per discutere di letteratura. Dato che questi seminari si svolgevano a casa sua, per precauzione e per non attirare l’attenzione optò per una classe interamente femminile, benché a uno studente, Nima, venne consentito di seguire a distanza, passandogli il materiale prodotto durante quelle mattinate.

Leggere Lolita a Teheran è la storia di questi incontri, delle vite delle studentesse, delle loro speranze e delle loro vite sullo sfondo di una nazione profondamente cambiata dalla rivoluzione di Khomeini.

Quando il libro venne pubblicato, nel 2003, venne salutato come una specie di miracolo: le donne musulmane scrivono e vendono, per giunta! Non è da escludere che la fama raggiunta in poco tempo dal libro sia stata, in parte, immeritata. Se però è servito a portare l’attenzione verso scrittrici allora del tutto sconosciute nel nostro “occidente”, ben venga.

L’harem e l’Occidente

Fatima Mernissi è stata una sociologa e scrittrice marocchina. Morta nel 2015, ha lasciato un grande vuoto e almeno due generazioni di femministe e islamiste in lutto. (Per precisare: con “islamista” intendo ‘studioso di Islamistica”. Data la recente accezione assunta dal termine, vorrei rassicurare tutti: non stiamo parlando di fondamentalisti religiosi).

Nei suoi scritti è riuscita a sovvertire tutto ciò che noi “occidentali” diamo per certo quando pensiamo al Corano o alla cultura islamica. In questo libro, in particolare, Mernissi affronta l’argomento dell’harem, termine che ci riporta alla mente dipinti di odalische adagiate su cuscini di seta e ornate di sole perle.

Quale uomo eterosessuale occidentale non ha sognato un harem? Bene. Mernissi conosce l’harem per esserci cresciuta. E vi farà dimenticare ciò che pensavate di sapere circa la vita in un harem. Soprattutto se ha a che fare col sesso.

Nel libro troverete il leggendario Harun al-Rashid, l’imprescindibile Shahrazad, l’occidente messo a nudo e molta ironia, tratto tipico di Mernissi, generosa nel dare dettagli della propria esperienza. Giusto per invogliarvi a leggere questo come gli altri libri dell’autrice, riporto qui il titolo dell’ultimo capitolo: L’harem delle donne occidentali: la taglia 42.

Golda ha dormito qui

Suad Amiry è un’architetta e scrittrice di madre siriana e padre palestinese.

La sua prima professione si riflette profondamente in questo suo libro, che si concentra su quello che è uno dei dolori più acuti della popolazione palestinese: l’aver dovuto lasciare la propria casa in fretta e furia e, spesso, senza sapere che non vi avrebbe più fatto ritorno. Nessuna foto, nessuna suppellettile, nessun gioiello né vestito. Quasi sempre, le chiavi gelosamente custodite e tramandate a figli e nipoti sono l’unica cosa che resta della vita che i palestinesi hanno dovuto lasciare.

Il desiderio di “casa”, della casa avita, viene ereditato sin da piccoli, pur non avendone mai varcata la soglia.

Il libro descrive il rapporto di una serie di famiglie col ricordo delle case che furono, con la speranza, un giorno, di potervi rientrare. Cosa alquanto improbabile, visto che le case requisite vennero affidate a un’agenzia governativa che poi ne curò la vendita a cittadini israeliani. E no, i proventi non andarono ai legittimi proprietari, secondo la legge israeliana che considera fantasmi questi proprietari definiti “assenti”.

Il libro Golda ha dormito qui è piacevole, i personaggi tratteggiati con levità e ironia, nonostante l’argomento. Le case, descritte con l’occhio dell’architetto, sono personaggi a loro volta: i colori, le balconate, i dettagli, i materiali e la precisa ubicazione di ciascuna delle abitazioni trattate le fanno vivere.

La Golda del titolo è Meir, il primo ministro israeliano che, a sua volta, visse in una casa di Gerusalemme ovest requisita a una famiglia palestinese.

Firdaus. Storia di una donna egiziana

Nawal Al Saʻdawi è un’icona. Non saprei come descriverla meglio. Psichiatra, femminista, detenuta sotto Sadat, un’ispiratrice per donne e uomini egiziani e non. Durante le proteste del 2011 non era raro vederla in strada, a parlare coi giovani.

Firdaus è il risultato di una sua ricerca nei primi anni ’70 sulle donne sofferenti di nevrosi nelle carceri egiziane, quando Al Saʻdawi ancora non sapeva che un giorno sarebbe stata a sua volta una delle carcerate.

Firdaus era una detenuta che, per giorni, si rifiutò di incontrarla, protetta in questa sua decisione dallo stesso personale del carcere, che nutriva per lei una specie di riverenza. Riverenza che non faceva altro che accrescere la curiosità professionale e personale della psichiatra.

Firdaus cambiò idea e accettò di parlare con la dottoressa il giorno prima di essere giustiziata, se di giustizia si è trattato. Era stata condannata per aver ucciso il suo protettore. Come vi era arrivata, è una sequenza di violenze, umiliazioni e traversie iniziate nella prima infanzia. Ma, con quell’ultimo suo gesto, Firdaus troverà per la prima vera volta l’assoluta indipendenza, l’affermazione di se stessa. Non spera e non vuole più nulla, è quindi libera, libera da tutte le bugie che le sono state imposte come verità e che ora lei ha sgretolato. E dovrà necessariamente morire, perché quegli uomini, che siano della polizia, clienti, o impiegati dell’azienda per la quale ha lavorato cercando di ritrovare “rispettabilità”, “non hanno paura del mio coltello. È la mia verità che li spaventa”.

Perché ci odiano

Mona Eltahawy è una giornalista egiziana. Cresciuta nel Regno Unito, si trasferì con la famiglia in Arabia Saudita a quattordici anni. E lì diventò «femminista per trauma» (e grazie al miracoloso reperimento nella biblioteca scolastica di testi femministi, tra i quali quelli delle «nostre» Mernissi e Al Saʻdawi). Nel novembre 2011, al Cairo, venne arrestata durante i giorni delle proteste in piazza Tahrir. Subì minacce e aggressioni sessuali, più la frattura di entrambe le braccia.

In Perché ci odiano Eltahawy ripercorre i motivi che l’hanno portata alla sua personale protesta, racconta della lotta per essere una femminista velata prima e una femminista che lotta con se stessa per lasciare il velo poi. Ed è su questa rivoluzione privata che deve diventare pubblica che l’autrice si focalizza.

Ripercorrendo casi specifici di misoginia in diversi paesi musulmani, o pratiche come le mutilazioni genitali, Eltahawy prova a ridefinire i contorni della lotta femminista, che può essere affidata solo ed esclusivamente a iniziative nazionali, giacché di Islam monolitico, come detto, non possiamo parlare. Dovranno essere le donne musulmane a trovare i modi per liberarsi del patriarcato, senza bisogno del paternalistico appoggio dell’occidente. Questa lotta, cui la rivoluzione egiziana sembra aver dato nuovo impulso, potrà essere portata avanti anche grazie al contributo di quelle che sono le seconde e meno visibili vittime della misoginia: gli uomini.

Una rivoluzione culturale che parta dalle mura domestiche per riversarsi nelle strade e fissarsi nelle leggi. Perché può avere il viso di tuo padre, di tuo marito, di tuo fratello, di un poliziotto, di un tutore o di un dittatore, ma è sempre lo stesso viscido nemico, che ti brutalizza mentre asserisce di proteggerti.

Testo a cura di Graziella Toscano

Disclaimer: su alcuni dei titoli linkati in questo articolo, Libri e parole ha un’affiliazione e ottiene una piccola quota dei ricavi, senza variazioni dei prezzi per l’utente finale. Potete cercare gli stessi articoli in libreria, su Google e acquistarli sul vostro store preferito.

Libraio

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Nata nell’estate 2005, la Graphe.it edizioni è il coronamento di un desiderio tanto profondo da poter essere catalogato come sogno e, come casa editrice, pur nella sua ridottissima dimensione, desidera coltivare i sogni nella vita di ogni giorno convinti che, come sosteneva Arthur Schopenhauer, la vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro; leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare. La Graphe.it edizioni si propone di dare voce a scrittori, esordienti o meno, che abbiano qualcosa da dire in maniera nuova e che, forse, non trovano ascolto... Intenzione della Graphe.it edizioni è perseguire la massima circolazione delle idee. Vorremmo che le culture di tutti i paesi soffiassero per la nostra casa con la massima libertà.

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