Edgar Lee Masters

Edgar Lee Masters, il poeta che diede voce ai morti

Nel proprio epitaffio, Edgar Lee Masters (1868-1950), l’avvocato-poeta americano che tanto e tanti ha ispirato con la sua opera massima, Antologia di Spoon River, così scriveva:

“…penso dormirò, non c’è cosa più dolce. Nessun destino è più dolce di quello di dormire. Sono un sogno di un riposo benedetto…“

Sembrava doveroso, nell’approfondire la figura di colui che più di tutti ha dato voce ai morti, iniziare, dunque, con una poesia che egli dedicò a se stesso e alla propria morte, intitolata Domani è il mio compleanno e tratta dall’opera Verso il golfo. Sì, perché l’antologia altro non è che una raccolta di componimenti in cui la poesia si attenua nella prosa e quest’ultima si esalta nel verso libero, con cui ogni anima sepolta nell’immaginario cimitero dell’omonimo paesino racconta la propria vita terrena, non avendo più nulla da perdere essendo ormai da tempo sopraggiunta la morte.

Edgar Lee Masters e l’Antologia di Spoon River

La morte. Ossessione e filo conduttore, mistero da indagare per molti poeti. Per Edgar Lee Masters poco si può fare contro il tragico evento. Tuttavia l’autore non rinuncia a mostrare il proprio stupore verso l’ineluttabile fine di ogni essere umano e di ogni cosa, sopra la quale si erge lei, incorruttibile e nei secoli immutabile. Da qui l’afflato verso l’eternità, che il poeta americano, però, ammanta sempre con un’aura di disperazione o almeno di commozione. Non riuscendo ad accettare la morte, in qualche modo la sfiora, evitando di approfondirne il mistero, là dove invece altri – prima o dopo – cercarono di interrogarla, sezionarla, analizzarla, probabilmente senza mai capirla davvero.

L’ispirazione di quest’opera unica nel suo genere fu duplice. Da un lato l’Elegia su un cimitero di campagna del pre-romantico Thomas Gray, dall’altro gli epigrammi greci dell’Antologia Palatina. Sul tema si era esercitato anche il nostro Ugo Foscolo, lanciandosi però nell’esaltazione dello spirito, tralasciando l’essenza del personaggio.

Antologia di Spoon River

Ne risulta un piccolo capolavoro di umanità edito nel 1915 che fece molto rumore. Evidente, infatti, l’ispirazione tratta dal paesino dell’Illinois in cui l’autore trascorreva buona parte della sua infanzia e dal quale si levarono parecchie lamentele di persone (ancora vive) che a loro dire si erano viste spiattellate le loro storie e i loro segreti più intimi. Vizi, virtù, invidie, amori e pettegolezzi: tutto ormai raccontano le anime morte di Spoon River a chiunque voglia stare ad ascoltarle.

Le 213 epigrafi della prima edizione, divennero 243 in quella definitiva del 1916, arricchita anche dalla poesia La collina e da storie che complessivamente coinvolgono 248 personaggi di varia umanità: matti, fedifraghe, farmacisti, giudici ecc. ecc.

L’edizione italiana di Fernanda Pivano

Nell’Italia fascista, però, la poesia straniera veniva osteggiata. Così la prima edizione in italiano – grazie alla traduzione quasi per gioco che ne fece Fernanda Pivano ma che le costò il carcere – risale solo al 1943, appena sette anni prima della morte dell’autore ormai ridotto in miseria.

Del carcere di Fernanda Pivana ne scrivono, tra gli altri, Franco Buffoni su Nazione Indiana e RaiNews che, tra l’altro, cita la Pivano stessa

“Era superproibito quel libro in Italia. Parlava della pace, contro la guerra, contro il capitalismo, contro in generale tutta la carica del convenzionalismo. Era tutto quello che il governo non ci permetteva di pensare […], e mi hanno messo in prigione e sono molto contenta di averlo fatto”.

Fabrizio De André affascinato da Edgar Lee Masters

Pacifisti, anarchici, rivoluzionari questi morti che con i loro racconti sono in grado di scuotere le fondamenta della sonnolenta campagna americana, sovvertendo l’immagine di una tranquilla cittadina in un covo di veleni, tradimenti e frustrazioni.

Probabilmente per questo l’Antologia attrasse l’attenzione di Fabrizio De André, che nel 1971 pubblicò il suo quinto disco, Non al denaro, non all’amore né al cielo, proprio prendendo spunto, e a volte semplicemente traducendo, le vite dei sepolti di Oak Hill. Prendono vita in musica, allora, il matto che non riusciva a comunicare i suoi pensieri; il blasfemo che aveva accusato Dio di aver mentito all’uomo; il malato di cuore morto per l’emozione dell’aver posato per la prima volta le proprie labbra su quelle di una donna; il medico ridotto in povertà per aver curato tutti gratuitamente; l’ottico in grado di vendere occhiali speciali che fanno vedere oltre la realtà e il suonatore Jones, probabile alter ego del poeta come del cantautore.

In comune hanno tutti il luogo dove risposeranno, si spera in pace, per l’eternità.

“Dormono, dormono sulla collina… dormono dormono sulla collina…”

Foto | Wikimedia Commons

Roberta Barbi

Roberta Barbi

Roberta Barbi è nata e vive a Roma da 40 anni; da qualche anno in meno assieme al marito Paolo e ai figli, ancora piccoli, Irene e Stefano. Laureata in comunicazione e giornalista professionista appassionata di cucina, fotografia e viaggi, si è ritrovata da un po’ a lavorare per i media vaticani: attualmente è autrice e conduttrice de “I Cellanti”, un programma di approfondimento sul mondo del carcere in onda su Radio Vaticana Italia. Nel tempo libero (pochissimo) si diletta a scrivere racconti e si dedica alla lettura, al canto e al cake design; sempre più raramente allo shopping, ormai rigorosamente on line.

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