Qualche tempo fa, fece notizia la storia di una ragazza inglese che aveva ottenuto da un giudice l’autorizzazione a farsi ibernare per cento anni, con la speranza che nel frattempo la scienza riesca a trovare una cura contro il tumore che l’ha colpita. Come da previsione, la giovane purtroppo è deceduta. Il suo corpo ora si trova congelato in una struttura specializzata nel Michigan.
La trama di Zero K, romanzo di Don DeLillo, verte proprio sul tema, controverso ma indubbiamente affascinante, dell’ibernazione. È a questa pratica che decide di sottoporsi una delle figure chiave del libro, Artis Martineau, moglie di Ross Lockart, ricco magnate della finanza e padre del giovane protagonista del romanzo, Jeffrey Lockhart.
Zero K
È sua la voce narrante, un trentenne disoccupato e irrisolto, per certi versi figura paradigmatica dell’uomo moderno. Coinvolto suo malgrado dal genitore in quello che si rivelerà un viaggio non solo fisico ma direi iniziatico nel regno della post mortem situato in un’installazione segreta in Russia, nel deserto del Kazakistan, Jeffrey si trova a fronteggiare una situazione estrema, sospesa tra fiducia utopistica nel potere di una Scienza che prospetta un’improbabile resurrezione e un atteggiamento para-religioso che sconfina nell’illusione di poter sconfiggere la morte.
Qualche critico si è affrettato a etichettare, in maniera – voglio dirlo – sottilmente dispregiativa, questo lavoro di DeLillo come fantascienza apocalittica. In realtà si può parlare al limite di un’ambientazione a tratti fantascientifica, visto che il grande scrittore, nonché appassionato cinefilo, sembra attingere più o meno consciamente a certe scene di film “cult” degli anni ’70, ossia Coma profondo di Michael Crichton o La fuga di Logan di Michael Anderson.
Alcuni difetti del romanzo
Ma certe descrizioni del luogo e del personale della base sono tipicamente alla DeLillo. Puntigliose e iperdettagliate, stordiscono quasi il lettore, che si trova a condividere il senso di smarrimento e oppressione provate da Jeffrey.
In effetti sono proprio queste le parti forse più deboli del romanzo, ipertrofiche e a volte quasi noiose – absit iniuria verbis – dense come sono di dialoghi perfetti ma surreali e di cronache ultra dettagliate delle scene di combattimento, morte e devastazione che vengono spesse mostrate su schermi a scomparsa nei corridoi dell’edificio. Il messaggio sotteso è chiaro e serve a incitare gli aspiranti immortali a sottoporsi all’ibernazione, per sopravvivere a una delle tante, prossime Apocalissi. Oltretutto potranno così godere del discutibile privilegio di poter decidere se non altro il momento della propria morte.
Pregi di Zero K
Molto suggestive le pagine dove l’autore mette in scena un allucinato monologo in prima e terza persona di quella che potrebbe essere divenuta la coscienza, risvegliata a un livello attenuato, di Artis Martineau.
È questa la parte del libro più assimilabile a certa fantascienza, direi di stampo cyberpunk, tanto oscura quanto affascinante. Affiora anche il tema del postumano, affrontato con maggior decisione anche da alcuni autori di casa nostra appartenenti al cosiddetto Movimento Connettivista (tra questi ricordiamo il Premio Urania Sandro Battisti).
Molto riuscita è la rappresentazione della relazione che intercorre tra Jeffrey ed Emma, un legame non basato su un rapporto d’amore, quanto di identificazione reciproca e di condivisione. Il tutto all’insegna della freddezza, una sensazione che del resto aleggia su tutto il romanzo. A ben vedere, anche questa dimensione di “non amore” rispecchia un modo di concepire certi rapporti di coppia contemporanei: di nuovo, DeLillo riesce a cogliere con grande acutezza quest’altra forma di moderno malessere, la rarefazione dei sentimenti.
Il libro contiene molte domande: sul valore dell’esistenza, delle nostre azioni, sulla trascendenza. Ma non fornisce risposte, né d’altro canto credo sia compito dello scrittore darne. È già un grande merito scuotere le coscienze lanciando interrogativi pesanti come macigni e temi sui quali riflettere a lungo.
Un romanzo di formazione?
La storia narrata nel libro è scarnificata, come ci ha abituati l’autore nei suoi ultimi lavori, anche se il lavoro di preparazione per sua stessa ammissione gli ha richiesto ben quattro anni. Ciò che conta in realtà non è tanto la trama, quanto l’esplorazione delle angosce e del senso di smarrimento provati dall’uomo contemporaneo nei confronti da un lato di una realtà alienante e sfuggente e dall’altro dell’eterno, ineludibile e per molti versi insondabile, tema del significato della vita e della morte.
Zero K è anche, a suo modo, un romanzo di formazione, visto che descrive il difficile rapporto tra i due Lockart, padre e figlio, in una dialettica inevitabilmente viziata dalla presenza incombente della morte del genitore, ricercata dall’anziano uomo d’affari per una sorta di hybris o per sentirsi più vicino alla giovane moglie che per prima compie il passo supremo. Si tratta di una scelta non approvata da Jeffrey, che non crede affatto alla resurrezione post mortem offerta dal progetto Convergence.
Lo stile di Zero K
Lo stile di Zero K è quello tipico di DeLillo: misurato e preciso allo spasimo, tendente a volte, data la materia, a ricorrere al linguaggio scientifico. Eppure non di meno è ipnotico e catturante, anche se a volte l’autore sembra peccare di senso della misura.
Colpisce altresì la capacità dello scrittore di calarsi nei panni e nello spirito di un trentenne, senso di smarrimento e apatia compresi. Ma Don DeLillo è, a mio modesto avviso, il più grande scrittore vivente e dunque non dovremmo meravigliarci più di tanto di quest’ennesimo miracolo letterario.
Non so se davvero Zero K possa fregiarsi del titolo di miglior romanzo di DeLillo dai tempi di Underworld, come affermano certi critici blasonati, ma forse non del tutto imparziali. Di certo merita di essere letto con grande attenzione, vista anche l’attualità e la pregnanza degli argomenti affrontati.
Il libro
Don DeLillo
Zero K
traduzione di Federica Aceto
Einaudi, 2016
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