Quante e quali cose, negli anni della scuola, ci sono parse imposizioni alle quali ribellarsi con l’arma dell’indifferenza che ci siamo tuttavia puntati addosso precludendo l’incontro con parti inconfessate o sconosciute di noi stessi… Gli scricchi di Eugenio Montale, per esempio, erano allora incomprensibile linguaggio e, solo per chi – con la circospezione della diffidenza – vi si è avvicinato un poco di più, sono divenuti quel suggestivo frinire di cicale che è quasi uno scricchiolìo e che ha accompagnato con la sua musica tante nostre estati.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
Leggere Eugenio Montale oggi
Montale, e altri come lui, tuttavia già ci appartenevano, in una nostra adolescenza caratterizzata dalla sua adulta cupa angoscia esistenziale, dal fermo rifiuto di facili consolazioni che, ahimè, oggi invece vengono accettate. L’intensa consapevolezza del non essere, del mancato realizzarsi dell’uomo…
Mia vita è questo secco pendìo
mezzo non fine,
strada aperta a sbocchi di rigagnoli,
lento franamento.
Montale colpisce, e già da allora ci avrebbe colpiti, se solo glielo avessimo permesso, con la sua struggente non voglia di vivere che tuttavia non è indolenza ma rifiuto; un pessimismo che appare più come poesia che come negatività. È un astratto male che striscia, che molti di noi hanno conosciuto, ma che lui ha il privilegio di far sentire, vibrare, e il dubbio sulla validità dell’esistenza si trasforma in appassionamento alla vita, per chi legge.
Dice nel 1975:
Secondo me la poesia, prodotto forse inutile ma non nocivo, è nata dalla necessità
di aggiungere un suono vocale – la parola – al martellamento delle prime musiche tribali. La vera materia della poesia è il suono.
Ed è suono il suo senso di sconfitta, sono suono le sue nostalgiche aspirazioni…
Fascinazioni montaliane
Mi affascina l’idea del suo mare-padre, mare inteso come maestro di vita autentica. Un mare che vorrebbe raggiungere con la consapevolezza di non riuscirci, l’emblema di quanto lui – pur volendo – non è riuscito a realizzare, autodefinendosi della razza di chi rimane a terra.
E mi affascina, in Spesso il male di vivere, l’idea che lo scampo dalla sofferenza si possa conquistare con il distacco, con lucida e superiore indifferenza. Ciò libererebbe l’uomo dai suoi stessi limiti, rendendolo quasi un Dio. La statua citata alla fine della poesia, rappresenta benissimo l’immobilità, l’assorto silenzio, l’estraneità a ciò che la circonda.
E che dire dello specchio dell’acqua nel secchio, immagine simbolica del passato in Cigola la carrucola nel pozzo… Una poesia che, impietosa, ricorda che il passato non è più recuperabile per nitidezza e contorni; si deforma nel tempo, appartiene ad un altro modo dell’io, ad un’altra vita già vissuta, ad una persona diversa da quella che tenta di riviverla. E, alla fine, non si può che constatarne l’impossibilità.
Un uomo che conclude la sua attività avvalendosi di satira e paradosso, alleggerendo così la disperazione, ma perdendo parte della sua vera natura nello scrivere cose come piove sulla Gazzetta Ufficiale…
I pomeriggi ad ascoltare tra i pruni e gli sterpi
Sappiamo tutti quanto certe anime – conosciute e non – possano rendere tangibile l’immortalità.
Eugenio Montale, per molti di noi, resterà per sempre il compagno di pomeriggi solitari ad ascoltare tra i pruni e gli sterpi, schiocchi di merli, frusci di serpi; il poeta che sa e saprà condurci ancora, attraverso malinconiche introspezioni, sotto quel sole che abbaglia, a…
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Foto | Federico Patellani, Public domain, attraverso Wikimedia Commons