Kenzaburō Ōe

Kenzaburō Ōe è morto: il Giappone saluta il suo autore più ambiguo

Siamo nell’era della globalizzazione, dell’essere ovunque, comunque e in qualunque momento. Eppure ci sono delle isole (e il Giappone in effetti è un arcipelago) che restano comunque misteriose, rinchiuse in un loro io difficile da penetrare, indecifrabili nonostante le continue frequentazioni. Kenzaburō Ōe, morto oggi a 88 anni, è stato, in questo senso almeno, davvero un figlio della sua terra. Enigmatico, complesso, ambiguo, per certi versi disarmante, esponente di una letteratura che non sempre e non per tutti è universale.

Chi è stato Kenzaburō Ōe

Scrittore inizialmente poco fortunato in patria, nonostante i temi ampi che ha abbracciato nelle sue opere, dall’handicap al nucleare, è stato poco esportato: nonostante il Nobel, infatti, non sono molte le sue opere che sono state tradotte dal giapponese.

Il Nobel per la letteratura

Il Nobel, già. L’Accademia di Svezia glielo assegnò nel 1994, con una delle solite motivazioni un po’ stantie e abbastanza poco significative:

“con forza poetica crea un mondo immaginario in cui vita e mito si condensano per formare uno sconcertante ritratto dell’attuale condizione umana”.

Ma del Nobel della Letteratura di quell’anno rimangono due aneddoti, uno pubblico e uno privato. Quello pubblico riguarda il discorso di rito con il quale Ōe ringraziò per il prestigioso riconoscimento. Parafrasando l’unico altro giapponese che l’aveva ricevuto, Yasunari Kawabata nel 1968, e il suo discorso di ringraziamento intitolato Il Giappone, la bellezza e io, intitolò il proprio Il Giappone, l’ambiguità e io. Non potrebbe esserci più distanza, quindi, tra i due: il primo incarnava un Giappone tradizionale, legato al mito della cultura antica e del bello; il secondo, invece, è testimone crudo di una società moderna, a tratti violenta e spesso senza speranza.

Il secondo aneddoto era di carattere privato. Quando da Stoccolma telefonarono a casa Ōe per comunicare l’assegnazione del Nobel e sapere se lo scrittore lo avrebbe accettato, prese la cornetta il figlio disabile Hiraki, che parla pochissimo ma ama rispondere al telefono e agli svedesi dedicò le poche parole che sa dire: “Pronto. No. No”. Per fortuna, prima di riattaccare, passò il ricevitore al padre.

Gli scritti di Kenzaburō Ōe

Con in tasca una laurea in letteratura francese, Kenzaburō Ōe pubblicò il suo primo racconto, Animale d’allevamento, a 23 anni, accaparrandosi il prestigioso premio Akutagawa. Dalla nascita di Hiraki tutta la sua letteratura s’intrise di esperienza personale, attraverso la quale venivano spremuti gli eventi del mondo e del Giappone in particolare.

Il romanzo Un’esperienza personale del 1964 è una parziale autobiografia in cui racconta la disperazione di un padre che – in una società competitiva e con il mito del corpo come un tempio quale è quella giapponese, che l’antica Sparta gli fa un baffo – non riesce ad accettare la menomazione del figlio e fantastica più volte di ucciderlo senza, ovviamente, mai arrivare a farlo.

Follia o semplice nudità delle ipocrisie? Difficile dirlo, ma la maturazione di Ōe come scrittore ha probabilmente sempre seguito da vicino quella di Ōe come uomo, o meglio come padre, nel faticoso, quotidiano approccio con il mistero della disabilità, attraversandone tutte le opere, fino all’ultima, edita nel 2013, Il bambino scambiato, in cui un suicidio dà l’avvio a un’azione a ritroso alla scoperta di una personalità che tutti credevano di conoscere; un viaggio coraggioso nell’altro che pochi hanno il coraggio di fare, se non sono spinti dal dolore di una perdita improvvisa e inspiegabile.

Alcuni temi letterari dello scrittore

Ma ad animare la sua opera sono anche altri temi, là dove il personale lascia spazio al dibattito politico, alla vita dello scrittore nella società. Innanzitutto la denuncia del crescente estremismo nazionalista che affligge il Giappone e che gli è valso anche diverse minacce di morte, nonché la sofferta vittoria in un processo contro ambienti militaristi; e poi la denuncia del nucleare, che molte coscienze nipponiche ha fatto risvegliare dopo il disastro di Fukushima nel 2011. Un tasto già dolente per l’anima giapponese di questo autore, ferita dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki lanciate quando lui aveva appena dieci anni.

Nel 2008 Kenzaburō Ōe aveva dato alle stampe Note su Hiroshima, storie di sopravvissuti assunti a simbolo di un Paese utopisticamente libero dalla follia distruttrice dell’atomo: dal medico che dirige l’ospedale dei contagiati all’infermiera che si uccide dopo la morte del fidanzato vittima delle radiazioni, fino al giornalista che fa della pubblicazione delle memorie degli irradiati dal fallout nucleare la sua unica ragione di vita. Nel 2012, quando Fukushima aveva già palesato lo spettro di una nuova ondata di suicidi, perfettamente coerente con la filosofia della perfezione che si respira ovunque nel Sol Levante – a tavola, in ufficio, in famiglia – Ōe torna a denunciare l’impiego dell’energia atomica analizzandone le implicazioni morali e politiche e lanciando un fortissimo appello al mondo affinché abbandoni una volta per tutte questo strumento di morte, sull’esempio di un Giappone che sull’onda emotiva della tragedia ha votato un no assolutamente temporaneo a un referendum sul tema.

Kenzaburō Ōe, una figura sempre contro

Una figura sempre contro, dunque, isolata e spigolosa, di difficile approccio per i suoi connazionali e anche per gli altri, a causa del messaggio spesso inquietante che propone, lontano dal grande pubblico al quale non offre mai visioni rassicuranti del futuro né analisi ottimistiche della realtà. Un autore profondamente occidentale, in questo, se un merito gli occidentali ce l’hanno, cioè quello di rendersi conto del decadentismo della società che hanno costruito e nella quale si affannano a vivere (da qui al volerla migliorare, però, è un’altra cosa..), per questo probabilmente inviso ai giapponesi, ma talmente giapponese nel suo essere schivo, riservato, sfuggente, da risultare ostico anche per gli occidentali. Uno sempre scomodo, sempre oltre, sempre fuori, anche dal punto di vista stilistico, capace com’era di virare in due righe dal tono accusatorio al grottesco, dal saggio più serio alla parodia. E per questo, se non altro, ci mancherà.

Foto | Thesupermat, CC BY-SA 3.0, attraverso Wikimedia Commons

Roberta Barbi

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