Raffaele La Capria

Ciao Raffaele La Capria, lasciandoci ci hai “Ferito a morte”

Se n’è andato nello spazio di un mattino, come doveva intitolarsi all’inizio il suo romanzo più famoso, Raffaele La Capria, ultimo intellettuale della Napoli contemporanea più colta e raffinata; scrittore che, ben felice di farsi “contaminare”, ha prestato la sua immaginazione e la sua penna anche alla sceneggiatura e alla scrittura per il cinema. E non è certo stato lo spazio di un mattino la sua lunga vita di 99 primavere, ma così è stata la sua morte, improvvisa e inaspettata, per quel che può esserlo a quell’età, e quindi dolorosa per il mondo della letteratura italiana che porterà il lutto per un bel po’. Del resto, la morte di sua moglie, l’attrice Ilaria Occhini, l’aveva fortemente segnato.

Raffaele La Capria: vita e opere

Riservato e introspettivo, Raffaele La Capria aveva raggiunto la notorietà dopo tanta gavetta a battere i tasti sulla macchina per scrivere, vincendo il Premio Strega nel 1961 con il suo romanzo più riuscito: Ferito a morte.

Ferito a morte

L’idea primigenia dell’opera – che arrivò a chiamarsi così dopo essere passata, appunto, per Lo spazio di un mattino e ancora prima per Leoni di giugno – stava nella descrizione della classica bella giornata estiva (l’azione si svolge in effetti una sola mattinata) con tutto ciò che in quel limitato arco di tempo può accadere di bene e di male mentre si è in altre faccende affaccendati, cioè nel mestiere di vivere. E in effetti nella prima parte della storia si raccontano le abitudini di un gruppo di giovani “vitelloni” (o leoni) napoletani, rampolli nullafacenti della buona borghesia di una volta che poteva permettersi di osservare la vita scorrere, fino alla partenza per Roma di uno di questi.

A chi gli chiedeva quanto ci fosse di autobiografico in quei giovani benpensanti, e cioè, in pratica, se si sentisse un vitellone anche lui, La Capria rispondeva che in tutti i suoi libri l’elemento autobiografico era presente, ma non per alimentare l’avventura terrena di un io fortemente narcisistico – come pure all’autore di successo poteva capitare – ma perché l’autobiografia è il migliore mezzo di conoscenza, come spiega anche la psicologia dell’empirismo, la didattica delle prove e degli errori: “Parlando dell’altro si parla di sé e parlando di sé si parla d’altro”.

La neve del Vesuvio

Nel 1988 esce La neve del Vesuvio (Premio Grinzane Cavour). La vicenda è ambientata negli anni Trenta e Quaranta, gli anni dell’infanzia e della giovinezza dell’autore che però afferma di non volerli semplicemente rievocare, analogamente a quanto avevano già fatto, superbamente peraltro, autori come Tolstoj o Carroll, bensì di voler raccontare quei momenti in cui, mentre la vita fa il suo corso apparentemente normale, all’improvviso si scopre una verità che tocca le corde più profonde del nostro animo segnandoci per sempre.

Se Ferito a morte era stato pubblicato a stralci e quindi era un romanzo non per forza concepito come tale, ma in un certo qual modo nato così, naturalmente, La neve del Vesuvio si presenta come un libro di racconti, ma a guardar bene è come fosse un unicum formato da tanti capitoli, il cui inizio si perde nella notte dei tempi, addirittura in quella fase in cui il bambino ancora non parla e poi finalmente prende coscienza del mondo che lo circonda e si rende conto, anche se a suo modo, di quanto questo lo condizioni.

È perciò La neve del Vesuvio, per stessa ammissione di La Capria, il suo lavoro più spiccatamente autobiografico, ma oltre a essere il racconto della sua d’infanzia, è anche il racconto dell’infanzia di Ferito a morte, perché nelle due opere si ritrovano gli stessi temi, che poi sono quelli più cari alla poetica dell’autore: il mare, la bella giornata, le contraddizioni della vita e le sorprese che essa ci riserva ogni giorno.

Colapesce

Un letterato appassionato di mare, inoltre, non poteva ignorare a lungo la leggenda di Colapesce. Infatti nel 1974 Raffaele La Capria ne dà alle stampe la sua versione personale, ricalcata su quella diffusa nel napoletano. Nicola – detto Cola-Pesce – è un ragazzo maledetto dalla madre per le sue continue immersioni subacquee che lo portano lontano da casa, e che finiranno per farlo diventare un pesce, dandogli così la possibilità di ricongiungersi definitivamente al mare, unico luogo in cui trovava un rifugio per lui sicuro.

La leggenda trae origine dal culto pagano di Nettuno i cui figli si erano accoppiati con le foche monache per conquistare poteri magici che avrebbero donato loro la supremazia del mare. La Capria la fa tutta sua, nel momento in cui la racconta alla figlia una sera prima di dormire, come una delle tante favole che inventava per lei. “Mi stava a sentire con una specie di sognante rapimento, con due occhi d’ambra chiara che pendevano dalle mie labbra e accoglievano come oro colato ogni mia parola, e tutto, ogni minimo particolare, metteva in moto la sua intatta fantasia – scriveva ricordando quel momento – oh, se i miei lettori mi leggessero come lei mi ascoltava!”.

Dal raccontarla a scriverla, la leggenda di Colapesce, il passo fu breve e soprattutto fu di nuovo un successo, di pubblico e di critica. Il suo unico intento era far conoscere alla figlia la bellezza dello scenario sottomarino e nel contempo prepararla alla futura lettura di Ferito a morte, che possiamo considerare un po’ il suo testamento umano e letterario.

Il segreto della letteratura per Raffaele La Capria

Per Raffaele La Capria, infine, il “segreto” inconfessabile della letteratura, l’essenza e il motivo stesso della sua esistenza è tutto qui. Una storia di emozioni trasmesse attraverso i secoli; di uomini che hanno sentito, amato, sofferto, sperato, sognato, e di altri uomini che tempo dopo sono lì a raccontarle o a leggerle, quelle emozioni. È attraverso la memoria di chi siamo stati, infatti, che diventa possibile sapere chi siamo; e la memoria di chi è stato La Capria, grazie agli scritti che ci ha lasciato, siamo sicuri che la conserveranno e la condivideranno in molti. Ciao Raffaele.

Foto | screenshot da YouTube

Roberta Barbi

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