Fiori di rovina

Fiori di rovina, di Patrick Modiano: un mistero irrisolto e un viaggio nella memoria

Fiori di rovina. Un titolo enigmatico come enigmatica è la vicenda dei due signori T., Urbain e Gisèle, che vengono trovati morti la notte del 24 aprile 1933 nella loro casa al civico 26 di rue del Fossés-Saint-Jacques, vicino al Panthéon.

Gli inquirenti parlano di suicidio. Il vecchio fatto di cronaca ripescato in chissà quale ingiallito ritaglio di giornale, per Patrick Modiano è la molla che spinge a ripercorrere antichi itinerari ormai abbandonati dopo la giovinezza, al di là di quella magica linea di confine che lui stesso indica come il prima e il dopo l’aver cominciato a scrivere, cioè di “avere preso il largo”.

Fiori di rovina

Ben presto si capisce che queste passeggiate, reali o solo immaginate, ma con una potenza descrittiva e una ricchezza di dettagli da far invidia ai proverbiali elefanti, non sono l’inizio di un’indagine poliziesca, bensì il “la” a un viaggio a ritroso nella memoria dell’autore, che alla fine di queste poche pagine non avrà dato alcuna risposta, ma al contrario, posto altre mille domande.

Il mondo al quale apparteneva quella gente risvegliava dei ricordi d’infanzia: era il mondo di mio padre. Marchesi e affaristi. Capitani di ventura. Pendagli da forca.

È così che la vicenda della “tragica orgia”, come la ribattezza sensazionalisticamente la stampa, riporta alla mente figure obliquamente legate al sesso, come la bruna Violette, la “ragazza dei veleni” che faceva credere mari e monti alle sue “vittime”; oppure la ventenne dalla chioma ramata Sylviane, che sfidava il prossimo e la sorte al biliardo del primo piano del Cluny, fino alla biondissima prostituta nota come la Danese, con il suo accento affascinante, che raccoglie un quattordicenne Modiano alla prima fuga dal collegio, lo inizia al whiskey e sembra volergli fare da mamma, salvo scaricarlo al palesarsi all’orizzonte del primo cliente.

Su tutte queste donne, però, e soprattutto sulla madre che l’autore non ha mai sentito vicina, spiccherà Jacqueline, incontrata ogni domenica sera in un ristorante e lì a lungo spiata prima che la fortuna e un po’ di coraggio gli dessero l’occasione per avvicinarla: solo lei riuscirà a portare Patrick lontano da Parigi, nell’austera Vienna.

L’amore di Modiano per Parigi

Parigi. È lei la protagonista assoluta dell’atto narrante di Modiano, soprattutto in questo romanzo, il secondo della trilogia pubblicata a cavallo degli anni Novanta, preceduto da Riduzione di pena e seguito da Primavera da cani. Ma qui a essere protagonista è soprattutto una parte della Ville Lumière, quella rive gauche che al Modiano degli anni Ottanta (circa venti ne sono trascorsi dai suoi vagabondaggi giovanili) appare più che mai provinciale, in qualche modo staccata dal resto della città e non più oscura e misteriosa come sembrava allora:

A vent’anni provavo un senso di sollievo quando passavo dalla rive gauche alla rive droit della Senna… non appena abbordavo la rive droit, l’aria mi sembrava più leggera… per molto tempo, ho avvertito un malessere nel camminare in certe strade della rive gauche. Adesso il quartiere mi è diventato indifferente, come se fosse stato ricostruito pietra su pietra dopo un bombardamento, ma avesse perduto la sua anima.

Quella stessa rive gauche dove si trova Montparnasse, un quartiere “che già allora mi sembrava sopravvivere a se stesso, marcire dolcemente lontano da Parigi”, è anche protagonista di un sogno ricorrente in cui Modiano si vede attraversare in macchina un viadotto in circostanze oscure ed elenca, una dopo l’altra, le insegne dei negozi che vede sfilare dal finestrino. Di fronte a quel viadotto, l’Île des Loupes dove sorgeva il grande chalet di Claude Bernard – altra figura emersa misteriosamente dalla nebbia in cui l’aveva costretta il passaggio degli anni – decorato con vetrate e bow window, ma soprattutto al quale si accedeva dal famigerato ascensore rosso che costituiva l’unico indizio sulla pista alla scoperta degli ultimi compagni di merende della coppia T., morta in circostanze che resteranno ignote.

Il personaggio di Pacheco

Infine, a proposito di anime perdute, gran spazio nel romanzo è per Pacheco, alias Philippe de Bellune (discendente del maresciallo Victor), alias Charles Lombard. Da sedicente barbone a impiegato leccato di Air France, forse morto a Dachau ma più probabilmente spia durante la Seconda Guerra Mondiale, si scopre essere solo un ladro d’identità, un cameriere che aveva visto troppo o forse troppo poco – chi lo sa – di quella fatidica notte di aprile.

Modiano si affeziona a questo personaggio “dagli occhi vuoti a furia di essere azzurri” che non riesce a decifrare ma dal quale è irrimediabilmente calamitato, surrogato di quel mistero paterno che non riuscirà mai a dirimere. Pacheco sì che in qualche modo si confiderà con Patrick, ma sarà una confessione silenziosa, ancora una volta da interpretare come i lunghi silenzi e le frasi interrotte di suo padre: prima di sparire gli lascia una valigia, una specie di moderno scrigno dei tesori, anche se non ci troviamo in una favola, bensì tra le pieghe di una sordida vicenda di cronaca nera.

Senza averne chiaramente coscienza, cominciavo il mio primo libro. Non era una vocazione né un dono particolare a spingermi a scrivere, ma molto semplicemente l’enigma di un uomo che non avevo nessuna possibilità di ritrovare, e tutte quelle domande che non avrebbero mai avuto risposta… a che pro sforzarsi di risolvere dei misteri insolubili e seguire quei fantasmi, quando la verità era là, molto semplice, sotto il sole?

Modiano non dice qual è questa verità, tanto agognata e sempre più lontana; preferisce ricacciare tutti i suoi fantasmi nella nebbia o, ancor meglio, lavarli via come solo la pioggia sa fare:

A poco a poco quell’uomo si fondeva con il muro. Oppure era la pioggia, a forza di cadere su di lui, lo cancellava come l’acqua diluisce una pittura che non ha avuto il tempo di fissarsi… era scomparso in questa maniera improvvisa che avrei notato tempo dopo in altre persone, come mio padre, e che vi lascia perplessi al punto che non vi resta che cercare alcune prove e indizi per convincere voi stessi che queste persone siano realmente esistite.

Il nostro parere su Fiori di rovina di Patrick Modiano

La mappa di Parigi che viene fuori dalle pagine di Fiori di rovina è unica: l’autore ci conduce letteralmente per mano tra strade e vicoli della rive droit come della “malfamata” rive gauche, proprio lui che è un figlio di Saint-Germain-des-Prés. Alla fine della narrazione la città diventa familiare anche a chi non vi fosse mai stato.

Tuttavia l’eccessiva autoreferenzialità è a tratti disturbante. Modiano ha un bisogno quasi patologico di riportare ogni fatto, ogni particolare a misurarsi con la propria personale vicenda terrena, facendo risultare ogni romanzo una forma diversa, seppur originale, di autobiografia.

Il libro

Patrick Modiano
Fiori di rovina
traduzione di Maruzza Loria
Lantana, 2012

Roberta Barbi

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